Il Cammino di un Eremita

Da multilinguaggio a metalinguaggio: Parte Terza

Il Cammino di un Eremita

09/05/2019

La poesia si è presa il meglio di ciò che sono. Non è granché, ma non passa giorno che non la ringrazi per questo. Seguire lampi di luce nel buio, correre sul taccuino per una sola parola vera, amare con sufficiente passione da fugare la paura della morte. Tutto questo silenzio in fondo alle nostre vite, il paradosso del postmoderno che tentiamo di riempire, serve soltanto ad amare con maggiore intensità e coraggio. Per essere in grado, di nuovo, di domandare la mancanza e riconoscere se stessi e l’altro.

Arriva un momento in cui devi decidere: vuoi sfidare i tuoi limiti o sopravvivere ad essi?
Nella mia testa, era il vecchio che parlava.

Il libro era appena uscito: tutti mi chiedevano di parlarne. Era una piacevole sensazione di popolarità. Avevo anche rimediato, tra le altre, una presentazione al mio vecchio Liceo. Si sarebbe svolta il 30 maggio, subito dopo il cammino.
Mi immaginavo lì, soltanto cinque anni dopo il Diploma, a parlare agli studenti come se fossi un infiltrato dall’altra parte della barricata.
Credevo che la voce del vecchio, ormai scissa dalla mia come un organismo senziente, si sarebbe acquietata. Scrivendo avevamo liberato insieme quei pesi bloccati sulle mie spalle.
Ma non era ancora finita.

-Ehi, vecchio, gli chiesi una notte in cui era stranamente silenzioso,
cosa vuol dire fare un cammino?
-Togliersi l’armatura, scoprirsi fragili e ritrovarsi forti, ragazzo.
Tu non lo hai ancora fatto. Ecco perché è così importante per te.
Era vero. Ne avevo già vissute tante di avventure. Ma ora era tutto diverso. Avevo paura. Non correvo solo contro il mio corpo stavolta. Era con la mia testa che dovevo combattere.
Allenarsi significa adattarsi alla sofferenza.
E io stavo per imparare ad essere fragile.

31/03/2019

Quello che spero di ottenere è essere in grado di allontanare dei demoni che mi fanno paura. Che non riesco a combattere, ad abbracciare, a riconoscere. Non soltanto per me stesso quanto per tutte le persone che mi vogliono bene e che meritano il meglio.

Per la mia breve ri-preparazione utilizzai un metodo controintuitivo: a cosa mi sarebbe servito avere fiato se le mie gambe e la mia schiena non avessero retto all’ennesima salita?
Prima ancora di riprendere a correre, dovevo fortificarmi. Non avevo molto tempo. Le settimane di immobilità avevano fatto il loro corso e capii da subito che sforzami troppo avrebbe significato ricaduta certa.
Nella prefazione di Volare è potere, il direttore della collana I Grazianei, Enzo Ferraro, ha coniato per me l’espressione “fisicità psicofisica”. Nella mia interpretazione, significa avere il cervello nei muscoli. È così che condiziono lo spirito e definisco gli obiettivi. Ancora oggi, nella mia caverna, non alleno il corpo ma la testa: uno sforzo mentale, per appartenere alle emozioni che condivido. Un omaggio da fare al cuore.
Guardai la mia armatura, un giubbotto di circa 20kg che usavo da tempo nei miei allenamenti; era la mia corazza, mentale, contro tutti e contro me stesso.
“Ho bisogno di te, ancora una volta”. Istintivamente, prima di indossarla, l’abbracciai. Ero tornato.

 

25/05/2019

Di notte, il vecchio ripete: “coraggio ragazzo. L’abbiamo aspettato per tanto tempo. Completa quel cammino. Dimostra a te stesso di meritarlo.”

Allora il giovane smette di rigirarsi nel letto e risponde:
“il mio vigore è la mia debolezza. Devi accettare ciò che accade.”

Ma lui imperterrito prosegue: “combatti e perdi, la tua vittoria è lottare ancora.”
Poi ricomincia la litania e anche il buio prende la sua forma:
“coraggio ragazzo.”

Stasera vedremo chi avrà avuto ragione.

 

Anche quella notte, prima della partenza, non dormii.  Mi vedevo camminare sulle montagne.
In questo sogno ad occhi aperti, cullato dal sussurro del vento che soffia fuori dalla finestra, sembro felice e anche maledettamente stanco.
Ho quasi completato il mio percorso, ma poi ad un bivio manco la segnalazione.
E poi ad un altro, e a quello dopo ancora.
Mi perdo. Non è da me: mi sento risucchiare nelle sabbie mobili della paura.
Il mio GPS non carica più la traccia. Il cellulare è scarico, devo aver consumato tutte le powerbank. La bussola non mi aiuta molto: vedo solo l’ombra di un grosso costone davanti a me. Devo girare intorno alla montagna. Prendo una storta. La caviglia è dolorante, inizia a gonfiarsi, cammino più lentamente. Il sole tramonta, ho il fiato corto. Sento foglie secche schiacciarsi alle mie spalle. Mi volto di scatto e mi sento cadere nel buio. Poi vedo soltanto il cielo che agita gli alberi e nasconde le stelle.
Un cinghiale mi ha attaccato forse, o sono io che esausto mi sono gettato a terra?
Non importa. Sei completamente solo.
Mi costringo a chiudere gli occhi e riposare. Quelli non erano i miei sogni, ma i peggiori incubi di tutti quelli che mi volevano bene.
Riaffioravano nella mia testa quando provavo a dormire.
Te la caverai ragazzo, ma devi fidarti di me.
Rispose il vecchio nella mia testa.

Mi alzai prima della sveglia, alle 04:00. La luce in cucina era accesa. Vi trovai mio padre, anche lui aveva l’aria di non aver chiuso occhio. Stavo riempendo le borracce quando vidi un altro zaino affianco al mio.
-Scordatelo! Tu non verrai papà. È già pericoloso per me.
– Non rompere. Da solo non ci vai.
In un’altra occasione non avrei neanche pensato di tagliarlo fuori. Papà era il veterano di una squadra inseparabile, composta da me e dall’ukulele, con cui negli anni avevamo conquistato le principali montagne della Calabria.
Registrava lui le canzoni che suonavo una volta iin vetta. Era sempre lui che la sera, dopo una lunga giornata di lavoro, trovava la forza per venire con me all’alba successiva e ripetermi: “ma almeno sai quanti km sono stavolta?”

Per tutte queste ragioni mio padre meritava di condividere l’avventura insieme a me.
Ma questa volta si trattava di una battaglia intima, contro me stesso.
Devo farlo da solo, gli ripetevo.
Quando lo vidi lì, pronto a partire, mi rimasero solo quegli incubi che mi perseguitavano.
Ora appartenevano soltanto a me.

Si scatenò il peccato più ingannevole e meravigliosamente difficile da giudicare: l’orgoglio.
Iniziammo a discutere.
L’alba doveva ancora sorgere ma non prometteva niente di buono. Rischiavo di tardare sulla tabella di marcia.
Papà aveva tutte le ragioni per contraddirmi.
Ad ogni parola che pronunciava venivo sferzato dalle mie ferite, mi sentivo più esitante.
“Come se non fosse già abbastanza difficile! Non puoi farcela; merda, con l’allenamento che ho non ne sono sicuro neanch’io.” pensai.
Finché il vecchio nella mia testa parlò di nuovo e rispose per me:
Non sei qui per autocommiserarti. Schiena dritta, ragazzo.
-Papà, so cosa vuoi fare ma così non mi aiuti. Devi rispettare la mia decisione.
Lo farò da solo. E ci riuscirò.
All’ultima frase nascosi il sangue della mia colpa antica, pronto a uscire dalla corazza.
Quella fermezza gli chiarii che non avrei avuto pace se non avessi fatto tutto ciò che avevo il dovere di fare.
-Fanculo! Sei un fottuto testardo.
-Ci vediamo sotto.

Così presi lo zaino che avevo preparato la sera prima e scesi nella mia caverna. A raccogliere tutte le energie mentali a mia disposizione. Ne avrei avuto bisogno, quel giorno. Fino all’ultima goccia.
Non ricordo per quanto rimasi laggiù. Un minuto, una vita.
Cosa importa se si è di nuovo sulla breccia, dopo essere rimasti immobili?

La caverna iniziò a brillare sotto il riflesso accogliente dell’alba, che lentamente sorgeva dietro l’unica finestra in alto. Quello che era stato il mio rifugio negli ultimi due anni si erse dal buio e mi ricordò per quale motivo stessi facendo tutto questo.
Søren Kierkegaard scrisse: La persona orgogliosa vuole sempre fare la cosa giusta, la cosa bella. Ma, poiché vuole farla con le sue sole forze, non è in lotta con l’uomo, ma con Dio.”
L’onore è un nervo scoperto. Potente, in quanto trova la sua forza nella furia.
Ma fragile, perché nasce dall’aridità di un cuore di tenebra.
Appoggiato alla panca, il mio sguardo sorvolò i pesi, il sacco da boxe, il rack, il tapis roulant.
In un attimo mi sembrò di rivivere ogni mio sforzo.
Tutte le versioni di me stesso si muovevano come sincronizzate nello spazio e nel tempo di quel luogo.
Mi ero allenato in qualsiasi condizione. Anche quando non dovevo.
“Ogni allenamento ti ha portato a questo punto. Fai ciò che devi. Coraggio ragazzo.”
Sentenziò il vecchio nella mia testa. Forse stavolta aveva ragione.
-Ti aspetto in macchina, disse un’altra voce alle mie spalle. Era quella di mio padre. Iniziavo a distinguerle con difficoltà, preso da quel delirio intrapersonale.

Allora fu il mio corpo a darmi una scossa, sovrastando le voci e le immagini che si erano condensate nel mio cervello. I brividi di adrenalina tornarono e la paura non era che un vago ricordo da appendere come trofeo nel luogo più luminoso della mia testa.
E prima che il vecchio mi anticipasse con la sua litania, lo dissi io, per la prima volta, ad alta voce:

Coraggio ragazzo.”

Arrivammo al Santuario di Paterno Calabro poco prima delle 06:00.
Il convento era chiuso. Così mi accontentai della vista dall’esterno. Tentai di immaginare cosa provò San Francesco la prima volta che arrivò qui, a 56 anni, per edificare una chiesa in mezzo alle montagne.
“Per te è stato solo uno dei tuoi tanti viaggi. Per me, forse sarà l’ultimo” riflettei.
L’orologio sul campanile segnava sempre la stessa ora.
-Ci vediamo all’arrivo.
-Puoi contarci, papà.
Vidi l’auto partire ed io rimasi ancora qualche minuto nel piazzale brullo, a guardare quell’orologio rotto, che un po’ mi assomigliava. La panoramica di ferro brillava sotto le montagne inumidite dal vento. Era la lingua secca di un’alba difficile che si scuoteva di dosso le nubi.
Scattai una foto davanti al convento e mi misi in marcia.
Il mio Cammino dell’Eremita era iniziato.

I primi chilometri di asfalto portavano dal sottile abitato di Paterno a Dipignano.
L’aria era umida. Per tutta la notte la pioggia aveva bagnato questi monti.
Nuvole di calore mi uscivano dalla bocca mentre, tremante dall’emozione, parlavo alla telecamera nel goffo tentativo di documentare la mia impresa. Ci avrei fatto l’abitudine quel giorno. È una delle esperienze che si fanno in completa solitudine. Inizi a parlarti e capisci subito perché non lo fai mai. Progressivamente sembri scollarti dalla tua personalità, che si mostra finalmente fratturata.
Ti dimeni, tra i vari momenti che hai vissuto e che ti hanno cambiato, mostrando a te stesso le sfaccettature che hai raccolto negli anni. Chiedendoti quante di queste siano davvero positive.
E così che si inizia a ragionare con se stessi. E forse anche ad impazzire, scherzai.
Ma lo accettai, non volevo più scappare da me stesso. Così respiravo frasi sconnesse come quel nervo vivisezionato e scivoloso che stavo percorrendo.

Nella sua forma turistica, promossa dagli Escursionisti Appennino Paolano, la via dell’Eremita prevedeva tre tappe, da percorrere in altrettanti giorni: la prima, di 22,5km, dal Santuario di Paterno Calabro a Cerisano. La seconda, di 18,9km, da Cerisano a San Fili. La terza e ultima tappa, 21,8 km, da San Fili al Santuario di Paola.
Ma il mio non era un cammino turistico; era una lotta interiore.
E sarebbe durata soltanto poche ore.
Dopo due lunghe curve in salita superai Dipignano e poi Cappuccini. Nei pressi di Contrada Piano di Pero, mi avvicinai allo sterrato.

Finalmente l’asfalto lasciava spazio ai ciottoli. I recinti di legno, che davano sulla campagna bagnata e fertile, si facevano esigui e inermi di fronte alla vegetazione sempre più fitta. Entrai in un bosco. Le querce non erano alte ma i rami, intrecciandosi, celavano il sole che alle 6:40 si ergeva già sopra le montagne, squarciando gli stracci di un buio resiliente.

Avevo scelto di non cambiare scarpe. Ne avevo due paia. Presto avrei incontrato la pietra dura dell’abitato di Carolei. Nonostante il fondo fosse rischioso e irregolare, avevo scommesso sulla freschezza dei miei muscoli all’inizio di questa impresa. Asfalto e terra si sarebbero alternati spesso, almeno nel primo tratto, e avrei perso troppo tempo in continui stop. Quindi decisi di tenere le mie A3 da running, con cui avevo corso anche sulla Scogliera nei miei anni da mezzofondista.

Solo nell’ultimo tratto, ispezionato il 31 marzo, avrei indossato gli stivali da trekking.

Inoltre, la mia strategia di corsa prevedeva di spingere molto nei primi 13 km per raggiungere, entro le 07:45, la distanza di 50km che avevo già sperimentato con la Via del Giovane, e regolare il mio cammino in base a quella esperienza.

Sbucai dal bosco e trovai un punto panoramico. Una veduta che teneva insieme in uno sguardo tutto l’arco appenninico dalla mia posizione fino alla linea di Sangineto. Scattai una foto, puntando il dito a nord ovest, lungo la linea d’aria che rappresentava, idealmente, la mia meta. A sinistra, ostruito dalle fronde e dall’erba alta, il sentiero diradava fino a scomparire e scendeva di quota fino a raggiungere il letto di un torrente. Ero eccitato e dovevo scaldarmi dal freddo che risaliva il fiume fin sopra al costone sporgente del canyon che stavo osservando. Percorsi la discesa di corsa, saltellando e muovendomi a zig-zag. Le mie scarpe sbattevano e scivolavano sulle rocce coperte dall’erba. Allora sfruttavo ogni sbilanciamento per saltare su altri sterpi e andare a valle.

Gli inglesi la chiamano Downhill. È un tipo corsa che sfrutta la gravità su percorsi prevalentemente in discesa, spesso caratterizzati da curve in contropendenza e dalla presenza di sponde, salti, rocce e sottobosco.
Si basa sulla forza esplosiva e la resistenza anaerobica.
Una sorta di sci alpino, che si fa con le gambe e nessuna tutela per se stessi.
Era così inebriante che non riuscii a farne a meno.
Incredibilmente, non caddi neanche una volta.

Ero quasi arrivato al fiume, sentivo l’eco dell’acqua che sbatteva sulle rocce, quando incontrai una mandria di vacche. E, come avevo imparato anni prima, dove ci sono mucche c’è almeno un cane da pastore. Restava da capire quanto fosse aggressivo.
Tre di questi bovini, i più pesanti, occupavano il sentiero nell’unico punto che potevo attraversare. Erano tutte femmine dal manto chiaro, di razza podolica, così grosse da farmi dubitare che fossero mansuete. Passai indenne, finché il cane da mandria mi vide e si scagliò su di me dal suo punto d’osservazione soprelevato.
-Bene, è uno soltanto. Poteva andarmi peggio.
Sembrava un Maremmano, ma era più scuro: forse era un incrocio. Quando con mio padre scendemmo dalla Montea ne incontrammo tre. In quel caso, stranamente, mi sentivo tranquillo. Era papà quello che predicava cautela. Scherzando gli dissi che sarei andato avanti io, perché lui “teneva famiglia”.
Ero un perfetto idiota, e lo sono tuttora; ma potevo permettermelo. In fondo eravamo sempre in coppia.
Quel giorno invece, da solo in mezzo al nulla e con molta strada ancora da percorrere, fui molto più cauto e schivo. Il simil-Maremmano si posizionò a mezzo metro da me, pronto ad attaccarmi. Sentivo la sua bava sui pantaloni. Era piuttosto alto.
Naturalmente proteggeva la mandria, non mi avrebbe attaccato se non si fosse sentito in pericolo.
Dovevo dargli l’impressione di non temerlo.
Continuai a camminare, ma tenni la mano sul coltello, pronto a estrarlo in caso di bisogno. I suoi guaiti secchi mi accompagnarono per qualche centinaio di metri, finché anche lui capì che non ero una minaccia, ma un randagio suo simile, e allora mi salutò abbaiando una singola volta e restò fermo in silenzio mentre andavo via.
In prossimità del guado la vegetazione si fece di nuovo fitta. Mi feci strada tra il fogliame e gli arbusti, scendendo per qualche minuto in direzione della corrente fino a vedere, incastrato tra due alberi e circondato da grosse pietre arrotondate, un piccolo ponte di legno coperto dall’edera.
Più avanti, in cima ad una lunga salita sfiancante c’era Carolei, il mio punto di riferimento. Paese natale di Alfonso Rendano e primo di tanti saliscendi quel giorno. Quando ero entrato nel bosco faceva freddo ed era, ancora in parte, buio. Quando vi uscii il sole picchiava già forte sulla mia testa. Mi tolsi lo scudo termico e restai in maglietta. Era passata solo mezz’ora ma dentro di me sembravano ore.

Entrai a Carolei passando per un viottolo e raggiunsi la chiesa Madonna delle Grazie. Scattai una foto e attraversai le alte scalinate del paese fino a trovarmi sulla via principale, un intimo e pittoresco corridoio in pietra tra le case e i ruderi del centro storico.
Quello che notai, in questo ed in altri paesi che avrei attraversato, era la stragrande presenza delle Chiese sul territorio. Un antico legame con le comunità che era rimasto immutato in secoli di isolamento e conquiste. Carolei contava appena 3000 abitanti, eppure aveva 4 chiese a poca distanza l’una dall’altra.
Mi sembrò surreale il silenzio di quel luogo, in alcuni punti disabitato e cadente, ma ricco anche di storie tangibili nella memoria architettonica delle sue case.
Tentai di rispettare quella quiete, moderando i miei passi su per le scalinate che portavano al centro. Mi abbeverai alla fontana del borgo. Proprio di fronte vi trovai la pietra di segnalazione: 50km. Una cosa in meno di cui preoccuparsi. Erano le 7:45 e avevo percorso 13km.
Ora potevo basarmi sui tempi della Via del Giovane.

Imboccai l’antica filanda dei Quintieri e superai la Chiesa Madonna della Stella. A quanto pare, fu un simbolo dell’Italia unita, nella zona.
Sorgeva su un piccolo lembo di terra strappato alla vegetazione e isolato dal resto del borgo. Praticamente, in mezzo al nulla.
Dopo qualche km di agile cammino sulle strade di campagna, abbandonai la pianura per salire di nuovo di quota.
Dovevo attraversare il versante nord di una collina.
C’era un altro cane, imprigionato nelle sue ore, distratto e grondante di sudore.
Sembrava debole, con una corda spezzata legata intorno al collo. Tentai di toglierla ma non si faceva avvicinare. Non potevo stare lì a perdere tempo, così gli diedi dell’acqua e mi misi di nuovo in marcia. Immaginavo sarebbe rimasto lì a osservarmi. Almeno, speravo non pensasse che gli umani fossero tutti uguali.
Ma dopo neanche un minuto, me lo trovai a scodinzolare tra le gambe, con il suo campanellino sotto il collare il cui rumore contrastava persino la sua condizione emaciata.
Sarei riuscito a sottrarlo al suo destino? Non ne avevo idea.
E allora cosa dirgli, cosa dargli? Soltanto la tenerezza di noi randagi.

Altra corsa, altro cane. Stavolta furono due. Al piccolo fuggiasco macchiato caffelatte si aggiunse uno bianco, grosso e minaccioso, che sembrava, più dell’altro, tenere il mio passo. Ma quest’ultimo mi lasciò stare dopo aver attraversato i confini di un campo coltivato.
Alla fine, rimasi solo io e quell’impertinente scansafatiche con una corda al collo. Era sempre dietro di me; a volte restava accucciato per pochi secondi, tremante. Poi se ne andava gironzolando lungo il sentiero roccioso, ad inseguire i rametti che gli lanciavo e che raggiungevo prima che lui potesse farlo.
Gli dissi che avevo conosciuto un altro cane come lui, sulla Scogliera. Era un pastore tedesco, svogliato e giocoso. Lontano dagli stereotipi.
– Sai, lo incontrai mentre correvo sulla spiaggia. Abbiamo fatto un piccolo tratto assieme. A momenti era calmo; sembrava quasi un incapace. In altri si imbizzarriva e mi lasciava anche cento metri di distacco. Pensa che passammo per una casa di campagna, in mezzo a una famiglia di contadini che stendeva i panni al primo mattino. Risero di gusto mentre mi scusavo per l’intrusione durante il nostro inseguimento. Ci credo, ridevo anche io!
Superammo Guardia Piemontese insieme, poi lui è scappato via.
L’avevo chiamato Chris.
Il cane non mi guardava affatto. Forse non voleva stare con me, facevamo solo la stessa strada.
Ma, per rompere il ghiaccio, continuai.
-Pensa, tutto quel tempo assieme e non abbiamo neanche cantat…scusa, abbaiato una canzone.
Allora intonai l’inizio di Society, di Eddie Vedder. E dopo un poco, il cane prese a guardarmi, abbaiando sorprendentemente a tempo.
-Visto? Non era poi così difficile, Alex.

Percorsi la discesa con vista spettacolare sulle Terredonniche, luoghi di vendemmia  nel cuore delle Serre Cosentine. Mi fece pensare al Don, per similitudine.
Correndo di nuovo in Downhill, mi immersi nella boscaglia e non ebbi più punti di riferimento, se non il selvaggio Canyon dell’Alimena, uno scorcio in mezzo al verde scuro.
Improvvisamente mi fermai, una frana scoscesa e buia che faceva da riparo agli animali selvatici impediva il passaggio.
Stavo riflettendo da quale parte fosse meglio percorrerlo. Quando Alex, il mio nuovo amico, mi guidò lungo un sentiero che, evidentemente, conosceva meglio di chiunque altro.
Non era la prima volta che un animale mi indicava la strada, del resto.
Mi accadde con un cane da mandria su Cozzo del Pellegrino, e persino con una mucca che in assenza di sentieri, ci fece largo tra la vegetazione imperante affinché io e papà trovassimo l’affluente che ci avrebbe portato alle Cascate del Marmarico.
Raggiunsi la provinciale, e smisi di sentire il dondolio del suo campanellino.
Mi voltai e vidi Alex rimanere al confine del bosco.
Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, così mi presi del tempo per dirgli addio.
Ma lui mi abbaiò subito come a dire:
“Datti una mossa! Quello che troverai non fa per me. Quindi vai avanti tu, che a me viene da ridere.”
Disse esattamente questo. Ne sono certo.
Ormai ero diventato bravo nel comprendere il poetico linguaggio dei cani.
Perché sono uno di loro.

Attraversai un ponte di pietra, proprio sotto l’enorme costone dell’Alimena che, da vicino, copriva anche il cielo. La roccia ambrata. coperta dalle reti di protezione, sembrava uno sgargiante monumento coperto dalle ragnatele.
Lì la provinciale era ad un bivio, a destra (Nord-Ovest) la strada proseguiva per Mendicino, la mia prossima tappa, costeggiando quella roccia accecante sotto i raggi del sole.
A sinistra (Sud-Ovest) portava a Monte Cocuzzo. Una delle prime vette che percorsi con mio padre. Dove tutto è iniziato.
Circa un anno dopo il Cammino dell’Eremita vi avrei portato lì mio cugino, desideroso di avventure selvagge, in un romantico passaggio di consegne.
Sempre a Sud-Ovest, c’era Fiumefreddo Bruzio. Croce e delizia delle mie relazioni sentimentali.
Pensai che chi vive nei borghi, e dorme pressocché nella memoria, doveva avere un qualche ascendente su di me.

Arrivai a Mendicino, e incontrai il quarto cane.
Un pitbull massiccio che se ne stava dietro un cancello verde.
Si dice che questa razza sia particolarmente feroce.
Ci sono casi di cronaca documentati, ma per me dipende, come in tutte le cose, dai suoi ricordi e da come viene trattato.
Sebbene da dietro l’inferriata non potesse farmi niente, ero certo che mi avrebbe bucato i timpani abbaiando come un dannato.
Al primo guaito fragoroso pensai di avere ragione.
Del resto, non potevo andare a genio a tutti.
Raramente mi succede con le persone, figurarsi con gli animali.
Ma, immediatamente, si zittì. Mi salutò abbaiando e poi restò a fissarmi, con la testa piegata da un lato.
A quel punto fui certo che doveva esserci qualche sorta di connessione, di perversione quasi tossica che accomunava un sentiero, un cane e me.

Vista da una roccia a picco sulla valle, Mendicino assomigliava a un presepe.
Mi colpii una sensazione di pace che ho provato spesso, perché accomuna diversi paesi calabresi: l’odore palpabile del pane caldo; Il silenzio che fa sentire fuori tempo, interrotto solo dalle campane che suonano la seconda messa del mattino; i vicoli storici come polmoni ancora funzionanti da cui poter respirare di nuovo; i sampietrini come volti di persone che raccontano e divellono le scarpe, piegando anche i passi alla resilienza di un paese.
“Resilienza”, una parola così abusata che viene voglia di odiarla.
O, almeno, di escluderla dal proprio vocabolario; finché i luoghi non ti riempiono di emozioni e non trovi altro per esprimerle che una sola parola vera.
La strada che portava alla cittadina era fiancheggiata da ulivi, fichi, vigneti e talvolta qualche finestra di gerani. A Mendicino, oltre che per il pane, sono famosi anche per questo.
Percorsi soltanto una piccola tratta all’interno del paese. Tempestivamente, il tracciato virava di nuovo sulle montagne.
Solo allora mi accorsi che la voce del vecchio era scomparsa dalla mia testa.
Non lo sentivo più da ore, ormai.
Forse il cammino mi stava davvero aiutando.

Arrivai a Cerisano intorno alle 10 del mattino.
Avevo completato la prima tappa della Via dell’Eremita: 22,5 km.
E come avrei capito più avanti, sarebbe stata anche la più facile.
Mi sentivo in forma, bruciavo di adrenalina; ma rammentai a me stesso di dosare le forze. Mancavano ancora parecchie ore all’arrivo.
Raggiunsi il cuore del centro storico, rifiatando tra le ombre delle tortuose vie in pietra.
Mi concessi dieci minuti di riposo alla fontana del borgo, dove feci rifornimento, cambiai le calze e la maglia.

Stavo riempendo d’acqua le borracce quando notai due muratori che stavano ristrutturando la casa di fronte. Mi venne in mente mio nonno paterno, che era stato capomastro e di case ne aveva fatte tante, lavorando anche in Svizzera.
Spesso, oltre a ripetermi ironicamente di fare un libro sulla nostra famiglia, mi raccontava qualche aneddoto sulla sua vita in cantiere.
Le regole d’oro per alzare un piano sopra l’altro, per fare una buona controsoffittatura e, sopra tutte, l’importanza del cervello in questo mestiere.
Chissà cosa avrebbe detto guardandoli; se stavano facendo o no un buon lavoro.
Quella scena mi fece pensare alla casa in montagna, una delle abitazioni che mio nonno aveva costruito con le sue mani, dove avevo passato alcuni momenti memorabili della mia infanzia. Ricordai il forno che aveva costruito all’esterno per le pizze di nonna; gli affollati pranzi domenicali all’ombra dei pini che cingevano il viale d’ingresso; quei pomeriggi assolati passati ad ascoltare vinili al suo giradischi, finché il sole ubriaco di vino non baciava il mare.
Avevo festeggiato lì il mio primo compleanno.
Molti anni dopo, vi passai una strana Pasquetta, tra pochi intimi.
A inseguire qualcosa che forse non esisteva più.
Finii di riempire la borraccia. L’ennesimo cane, un piccolo volpino, mi venne a salutare al bordo della scalinata.
Capii che era arrivato il momento di ripartire.

Mi avviai alla seconda parte dell’itinerario. Risalii Palazzo Sersale e raggiunsi le ultime case del borgo, alle pendici di una salita costante che sarebbe durata circa 11km.
In quel momento, vidi una donna stendere i panni nel giardino di fronte casa.
Più di una volta mi è capitato che, attraversando un paesino, tutti mi guardassero come fossi un alieno. Ma non fu questo il caso. La signora si voltò e mi sorrise timidamente.

Quando nelle nostre escursioni incontravamo qualcuno, io e il Tronco dicevamo sempre “salute” con voce cupa e toccandoci il cappello, come veterani cowboys erranti in un altro secolo.
Così feci anche stavolta.
-Eh…questa salita è dura.
– Non quanto la prossima, signora. È questo che mi ripeto per andare avanti.
Sorrise, e lo feci anche io.
-Di dove siete?
-Paola.
-Vi posso offrire un caffè?
-Vi ringrazio tanto, ma sto percorrendo tutto il tragitto fino a casa.
La donna si accigliò.
Come se improvvisamente avesse capito che quello lì non era un turista o un avventuriero della domenica.
Per un attimo, mentre mi inerpicavo lungo il sentiero, mi sentii ammirato come un eroe in missione per riconnettere i mondi in lotta contro loro stessi.
Poi mi sorrise di nuovo e con tono solenne mi disse:
-Allora buon cammino viandante. Che tu possa trovare ciò che stai cercando.

Quando sei in viaggio e colpisci la strada pensi che sia lei a dover parlare.
Ma devi essere tu a comprendere ciò che non dice.
Ogni viaggio sulla strada è una storia.
E la mia si stava modellando.
Oggi attraversiamo iperlinee mediali, dominate da algoritmi che regolano la nostra percezione stessa dell’essere al mondo. Sembrano connetterci a una qualche forma di realizzazione; ma non ci riescono perché non siamo noi alla guida delle nostre insensatezze.
La strada dura, arrugginita, barcollante, può ancora cambiare il destino di un uomo.
Qui siamo ancora noi a percorrerla, verso gli altri e quindi verso noi stessi.

La salita che stavo affrontando era una strada di montagna desolata e scura che portava a Monte Caritello.
Era un tragitto brullo, dritto, costante nella sua alta pendenza.
Salendo oltre i 1000 metri, potevo vedere la Valle del Crati e rifocillarmi la vista, interrompendo quella lunga vena grigia dell’ammaccata strada provinciale che rischiava di annichilirmi.
Anche il tempo stava cambiando. In appena mezzora, quel sole duro e infuocato appariva ora molle e depredato della sua luce. Il vento saliva dal sottobosco e invadeva i muscoli accaldati di un freddo nuovo, negletto come le nuvole che iniziavano ad addensarsi.
Indossai la maglia termica. Per essere il 25 maggio, poteva andare meglio.
Raggiunsi una serie di tornanti e curve cieche coperte dagli alti faggi. Gli alberi mi impedivano di vedere il sole che, dopo le 11, aveva quasi raggiunto il suo apogeo.
Il banco di nuvole che si era formato qualche km prima lo stava stringendo.
Il buio del giorno sembrava essere arrivato troppo presto.
La scarsa visibilità mi fece drizzare le orecchie.
Per un po’ riuscii persino a sentire il rumore delle auto a valle; così camminavo in equilibrio sulla linea di mezzeria al centro di  quella carreggiata monotona, scommettendo con me stesso quale suono sarebbe passato da lì. Ma non durò molto.
Presto, neanche un rumore meccanico riuscii a trapelare la coltre selvaggia in cui mi stavo immergendo.
Il mio viaggio stava cambiando.
Potevo chiudere gli occhi, camminare nell’oscurità del mio cervello e ascoltare soltanto il canto degli uccelli e i passi scanditi dai miei battiti.
L’unico legame con la civiltà era l’asfalto.
E dopo un po’, soltanto il sentiero.
Una terra bruciata dalle fiamme che mi ardevano dentro.
Mi andava bene così.

L’etimologia della parola “emozione” deriva dal latino emovere: “trasportare fuori”. Il termine è storicamente associato a uno spostamento nello spazio, con una connotazione fisica profonda.
Le culture antiche erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’uomo, e lo stesso esercizio del pensiero, slegandolo dal luogo in cui abitava e si muoveva.

La salita continuò, con una pendenza costante e infinita che sfiancava la mente prima che il corpo.
Era un cammino decisamente diverso dalla Via del Giovane. Quella fu una tratta più selvaggia, fisica, condivisa: ci eravamo staccati dal mondo senza preoccuparci di comprenderlo. Qui invece, un diverso sentire.
Ogni mio passo era aspro ma non più così selvaggio.
C’era una misura nei miei movimenti.
Man mano che camminavo non erano più rabbiosi e fisici, quanto più leggeri ed evanescenti.
Un lento deteriorarsi del corpo e ricomporsi della sua memoria.
Nella natura adesso echeggiava il richiamo della civiltà.
Era un viaggio nella geografia interiore, che associava lo spazio fisico a quello abitato dalle mie emozioni.
Eccola, la mia redenzione.
Un’espiazione delle debolezze che non aveva più a che fare con il monadico “qui ed ora” ma con il dopo.
Un nuovo tempo in cui non sarei stato più un eremita.
Nei suoi Taccuini, Albert Camus ha scritto: “Non staccarsi dal mondo. Non si fallisce nella vita quando la si pone in piena luce. Tutti i miei sforzi, in tutte le situazioni, le sventure, le delusioni, tendono a ristabilire i contatti. Contatti con il vero, anzitutto con la natura, e poi con l’arte di coloro che hanno capito, e con la mia se ne sono in grado. L’essenziale: non perdersi e non perdere ciò che di se stessi dorme nel mondo”

Quando vi è uno sforzo prolungato, il corpo si piega sotto il suo stesso peso, la vista si annebbia, l’udito diventa ovattato, come in auto o in aereo per un cambio d’altitudine.
A volte senti persino fischiare.
Superai Cozzo Mozzillo(1135m) e mi allontanai dal selciato, ridotto ormai ad un colabrodo fangoso e allagato. Ansimando, proseguii lungo una deviazione più ripida e stretta che mi avrebbe portato in località Acquabianca e poi verso Masseria Silo.
Proprio in quel momento, la mia gamba destra crollò inerte sotto il peso della mia fatica. Ebbi giusto il tempo di portare l’avambraccio davanti al volto prima di cadere esausto su un fianco.
Dovevo aspettarmelo, avevo percorso tutta quella salita senza fermarmi neanche per rifiatare.
Ma non fu quello ciò che mi impressionò.
Lentamente rialzai lo sguardo e vidi quel sentiero desolato e spento affollarsi di vita. Nella mia testa, erano le figure che avevo conosciuto e che più avevo visto soffrire. Ricordo distintamente le loro ombre proiettarsi sul fango, le rocce, il terriccio, la sterpaglia.
Tutte con uno zaino, un peso dannatamente più grande del mio da portarsi dentro.
C’era chi aveva perso la madre, il padre, chi un figlio e, ancora, chi conviveva con malattie drammatiche, il cui solo pensiero ti bruciava per il dolore.
Tutti avevano perso qualcosa o avevano perso qualcuno.
Della strada avevo raccontato le crepe, avevo abbracciato la sofferenza dissonante che segue una tragedia; ma non avevo mai parlato dei fiori che possono sbocciare in seguito. Perché non accade sempre.
Il dolore ha un tempo, la sofferenza no.

Immediatamente mi chiesi cosa ci facessi in quello scenario così disturbante.
E la voce del vecchio, stavolta, non si fece attendere.
-Il cammino sta tirando fuori i tuoi pensieri, ragazzo.
-Io…tu… credevo fossi andato via. Che fine avevi fatto?
-Non eri abbastanza stanco per sentirmi, ragazzo. L’adrenalina ti aveva sopraffatto. È ora che ritorni con i piedi per terra.
-Ma che diavolo stai…fanculo! Sei solo uno scherzo della mia testa.
-Io esisto invece: sono qui per ricordarti di essere debole.
Rimasi a bocca aperta, in cerca d’aria, mentre trascinavo la gamba dolorante su per la collina.
Ognuna di queste ombre, che osservavo con la testa china sul selciato, apparteneva a un corpo che stava camminando, da qualche parte.

Davanti a me vidi il riflesso di uno zaino enorme sobbalzare su per la salita. A fatica riuscì ad avvicinarmi. Dietro l’ombra di quel peso c’era una mia amica, l’avventuriera dal cuore alato con cui condivisi gli anni del liceo.
Il suo profilo esile resisteva tenacemente sotto i rimbalzi violenti di quel fardello sulla sua schiena.
Vidi agitarsi una cinghia del suo zaino. Istintivamente, per darle aiuto, tentai di afferrarla, evitare che la perdesse; ma caddi rovinosamente sul terriccio umido, coperto dagli alberi.
Rimasi lì, a vergognarmi di me stesso.
La verità è che quando lei aveva perso tutto avrei dovuto fare di più.
Invece rimasi paralizzato, il rispetto della sua sofferenza mi fece sentire inutile.
In quel momento, qualsiasi cosa pensassi di fare, avevo paura di sembrare inopportuno.
E così, per la mia coscienza, lo sono diventato.
Persino al funerale della madre l’ho guardata negli occhi e sono rimasto in silenzio,
ad abbracciarla e restare muto.
Ma c’è davvero qualcosa da dire quando si perdono entrambi i genitori?
Non lo so.
Tuttavia, il silenzio è un lusso che non puoi concederti finché ti resta fiato nei polmoni.
La vita in questo ti aiuta e ti danna.
Le nostre strade si sono separate negli anni, ma io ho continuato a pensarci.
A pregare, anzi a sperare, che dopo tutta quella sofferenza, lei potesse ricominciare con la sua vita. Sorridere di nuovo, come faceva sempre tra i banchi di quel liceo in cui sarei tornato soltanto quattro giorni dopo questo cammino.
Per omaggiare non solo sua madre, ma anche altre vittime della strada che erano passate per quella scuola.
E se parlando le avessi ricordato, incolpevolmente, quel periodo triste, reputai giusto farmi da parte.
Solo più tardi riuscii a parlare di nuovo, e con vigore, della perdita.
E, in qualche modo, anche della sua storia.

Un’altra figura mi passò a fianco e mi superò.
Aveva qualcosa di familiare. Dal suo zaino sporgevano dei fiori.
Nonostante fossero soltanto ombre nate dalla mia immaginazione, potevo sentirne il profumo fresco e dolce. Mi chiesi quali fossero i fiori più profumati, ma i muscoli della gamba mi facevano troppo male per pensarci. Forse non avrei saputo nominarli comunque. Non sono un grande esperto, in realtà. Ma di sicuro, dall’odore avvolgente che rabbrividiva le narici di dolcezza, erano stati appena colti.
Capii subito chi fosse. Quell’ombra sul sentiero era la proiezione di un uomo che conoscevo bene.
L’ultima volta che ci siamo visti stavamo festeggiando i suoi primi 50 anni, e scherzando mi ha detto: “hai scritto una poesia per tutti, fanne una anche per me.”
Non me la sentii di dirglielo: ma l’avevo già fatto, un paio di anni prima.
Avevo scritto una bozza per lui.
O meglio, per suo figlio.

C’è un solo modo di spiegare
cosa provi quando sorge il sole:
gli angoli delle carezze si piegano
alla forza delicata del tuo cuore.

La tua vita sa, prima ancora che si mostri;
a noi resta il fiato buio
di quegli occhi cielo leggero,
canti di farfalla che sbattono
le ali di quell’uragano che hai dentro
e che non si può scacciare.

L’amore è una cosa seria,
chi ti ama lo sa bene;
a volte si nasconde in un abisso
da cui si cerca di tirarti fuori.
Ma è sempre lì e marchia ogni giorno
col tuo nome: Emme.

Cosa puoi farci?
Anche tu stai lottando,
tra meraviglia e lacrime
urlando i tuoi anni e il tuo vigore.

Ti dedico il suono
di un’auto sfrecciante
con te alla guida che urli
“io sono qui.”

-Perché mi stai facendo questo vecchio?
Il sudore mi aveva ormai ricoperto gli occhi, che mi ardevano più del sangue nelle vene, mentre con le braccia tese sul fango continuavo a scalare quella montagna
-Io…non era questo che volevo. Cercavo solo di stare meglio.
-Vuoi stare davvero meglio? Guardali!
Tenni lo sguardo fisso sul terriccio informe. In realtà non l’avevo mai distolto da lì.
Il vecchio continuò.
-Osserva come ognuno combatte con coraggio le sue avversità, e poi guardati dentro, stronzo. Come ti senti? Te lo dico io. Debole.
Hai bisogno di spingere il tuo corpo oltre i limiti; lo pretendi, altrimenti finisci per pensare a ciò che non sei stato capace di dare.
Tu non lo fai per l’adrenalina e neanche per la gloria.
Ti sfidi perché dentro sai di essere un vigliacco, ragazzo. E quindi vuoi distruggerti.
Ti rifiuti, ecco. Non vuoi accettare le tue debolezze. Allora sai che ti dico? Non puoi parlare neanche di quelle degli altri e dedicare loro i tuoi versi.
-Questo non è vero, vecchio!
Mi lanciai per terra. Stringevo i pugni sul terreno, con le tempie pulsanti e lo zaino piegato fin sopra la testa.
-D’accordo, c’è un senso di incompletezza che spesso mi perseguita.
A volte prevale e mi trascina in un uno stupido vuoto in cui non riesco più a riflettere,
in cui rimugino senza parlare.
E non vado più avanti.
Credimi, a volte è così difficile di non avere rimpianti.
Convincersi di aver fatto del proprio meglio, di aver detto quella parola in più, o di aver dato soltanto un abbraccio.
Mi rialzai in piedi, con le vene gonfie di pianto che vibravano fin sopra la mia pelle.
-Ma c’è anche qualcosa…qualcosa di incrollabile dentro di me, vecchio.
Questa forza è merito degli altri.
Io non sarò puro, ma ciò che provo lo è.
So per cosa combatto, stavolta. Non è per fuggire da me, ma per ritornarvi.
Ho chiuso con questa merda. Ho perso fin troppo tempo, e affetti.
Te l’hanno mai detto, vecchio?
Questa tua ossessione per la memoria è solo un cazzo di limite.
-I limiti li crea chi non ha la forza di guardarsi dentro, ragazzo:
non essere vittima del ricordo, ma artefice di una nuova interpretazione del tuo passato.
-Sai, è così strano da dire: “ho fiducia nel mio passato”.
-Anche chi dice di non avere memoria ricorda tutto ciò che vorrebbe dimenticare.
Tanto vale utilizzarla.
-Sempre con la risposta pronta eh? Ascoltami bene, vecchio.
Voglio scacciare i demoni che mi fanno paura, che non mi fanno dormire.
Per essere utile a chi voglio bene. Fare la mia parte.
-Questo non è soltanto il tuo cammino, ragazzo. È quello di tutti.
Sarai davvero in grado di finirlo da solo?
Fu solo allora che capii.
Anche se avevo fatto di tutto per percorrerlo da solo, nel mio cammino c’erano sempre gli altri.

A fatica superai quella montagna e mi ritrovai in un ampio prato, ammantato di fiori e costeggiato da una fila sempre più sparuta di alberi. Quel bosco tanto profondo e doloroso era finito.
La gamba non faceva più così male. Mi sentivo leggero. Aumentai il passo.
Forse stavo esorcizzando le mie paure; o semplicemente tutte le mie borracce erano vuote e dovevo raggiungere la fontana in fretta, dissi ridendo al vecchio.
Ero pazzo a considerare la mia coscienza una persona?
No, credo. Questo ruolo era già stato del Don, scherzai.
La mia non era schizofrenia, ma una dichiarazione di interdipendenza.
Che il vecchio fosse il mio “io poetico” lo avevano già scritto nelle recensioni di Volare è potere. Ma non mi aspettavo che la sua voce diventasse così tangibile e carismatica.
In fondo andavamo nella stessa direzione. Evidentemente toccava a lui essere il trascinatore. Tuttavia non ebbi il coraggio di chiederglielo.
Che idiota. Non ce n’era bisogno; era nella mia testa, lo sapeva già.
Almeno, in un cammino così impegnativo, non ti faceva sentire solo.
Le spighe di grano, alte e splendenti, erano piegate dal vento nel verso del cammino e soffiavano nuova linfa nei miei muscoli disidratati.
Dovevo gestirmi. Avevo appena un mese di allenamento dopo l’incidente del 31 marzo.
Controllai lo zaino; anche del mio mezzo litro d’acqua di riserva non restavano che alcune gocce.
Cercai di farmele bastare.
Alla sorgente segnata sulla mappa mancavano solo un paio di chilometri.
Mi sentivo di nuovo esuberante; uscendo dal bosco avevo rimediato un bastone. Aveva la punta biforcuta, utile se avessi incontrato un serpente. Difficile, ma non impossibile, visto ciò che stava accadendo.
Quel bastone era simile a quello che, durante un giro tra le montagne in cerca di funghi, ruppi al mio amico Tronco.
Così mi rallegrai scimmiottando le battute che i miei amici, il Don su tutti, facevano di solito sulla mia goffaggine.
È proprio vero.
L’amicizia autentica feconda il cuore di una gioia senza limiti.

Raggiunsi i dintorni di Marano Marchesato intorno alle 14:00.
Lì mi fermai a pranzare.
La sorgente che avevo contrassegnato sulla mappa si trovava al limitare del bosco.
Era una piccola costruzione di pietra a cui era stato aggiunto successivamente un tubo di ferro.
Bevvi assetato e riempii le borracce.
Poi ripensai a tutto quello che era successo su per quella dannata salita, e sulla strada che ancora avevo da fare.
-Ehi, vecchio.
-Sì, ragazzo?
-Da quanto tempo sei qui, nella mia testa?
-Ci sono sempre stato. Ma non sapevi come contattarmi finché non hai iniziato a scrivere. Sono la tua tempra; quando perdi colpi, io entro in azione.
-Riuscirò mai a liberarmi di te?
-Oh, io sono una tua creazione. Un cammino non ti basterà.
-E allora cosa?
-Ne abbiamo già parlato: la scrittura, ragazzo. I tuoi versi, la tua prosa, hanno incuriosito le persone non perché fossero belli, non si tratta di mera estetica. Tu racconti storie vere, che sarebbero rimaste celate altrimenti. E lo fai col cuore gonfio, a costo di farle tue e soffrirne quasi quanto chi le ha vissute davvero. Te lo concedo, su questo hai avuto coraggio.
Volare è potere è stato un inno al riconoscimento, pieno di dediche all’alterità, sull’importanza costitutiva e fondante della relazione con l’altro e della mutualità del dono per poter riconoscere se stessi.
Ma nella vita, concluse il vecchio, tu non sei così.
-Già, assomiglio più ad un cane.
-Morto, un cane morto, direbbe il don.
Il vecchio ammiccò e riprese:
-Tutto quell’entusiasmo, quella foga, quella positività che hai dentro e che cerchi, non trovano forza nella scrittura se tu le nascondi. Hai paura di scegliere te.
E così anche gli altri hanno paura di sceglierti.
-Già, un po’ come fare un patto con un demone: scambi ciò che credi di essere per liberare la tua poesia. Che ne dici?
-Dico che te lo sei appena inventato il tuo demone del cazzo. Ascolta ragazzo, tu credi di avere una pessima considerazione di te. E, maledetto pazzo, in parte ti do ragione.
-Perché mi vieni contro a prescindere.
-Anche per questo. Ma quello che voglio dire è: faresti un cammino di tre giorni in poche ore se fosse davvero così? Daresti tutto te stesso a chi vuoi bene, consapevole di poter essere rifiutato, solo per essere certo di aver fatto la cosa giusta?
Hai scritto di tutti, e hai scritto anche di te. Ma non ti sei ancora riconosciuto.
Ricordati chi sei, ragazzo. O dovrò farlo io.

Di nuovo in cammino, registrai una poesia di Volare è potere- poesie sopra mondi disancorati.

25/05/2019

La tua grazia danzava
sotto l’aurora caleidoscopica
e i tuoi passi mi chiedevano
“Sai cosa siamo?”

L’ultima luna ha sciolto le orme
che labili e veloci erano rimaste sulla vetta;
e prima che il bosco si addormenti
e la nebbia che ti ha riempita
non lasci che foglie di te,
il cammino rincorre
e i miei passi rispondono
“Lo so.”

 

Le nuvole plumbee avevano chiuso il cielo e iniziavano a scaricare una pioggia sottile, delicata, così amabile da volerla baciare.
Spesso avevo corso con la pioggia. La adoravo.
Ricordo delle tempeste sul lungomare mentre mi allenavo, con le onde che ruggivano contro il cielo.
La risacca del mare era un canto profondo mi spingeva ogni volta ad andare più forte, più veloce.
Sulla battigia rocciosa ricoperta dalla sabbia fine e compatta, sembrava quasi che io e il maltempo ci dessimo appuntamento.
Tuttavia, per quanto cambiassi direzione, finivo sempre per correre controvento. Questo lo adoravo meno.
In quel momento, mentre mi trovavo a camminare per un altro bosco, sopra Cozzo Crocicchio, pensai di essere tornato a quel periodo della mia vita.
In maniera impercettibile, quasi meccanica, la pioggia mi fece aumentare il passo.
Non ebbi il tempo di rendermene conto che stavo già correndo tra le fronde e gli alti arbusti che invadevano il sentiero e piegavano la mia falcata.
Non sfidavo più la natura selvaggia, ma il tempo dentro e fuori da me.
Tutta la mia storia è racchiusa in un gesto naturale.
Correre è la cosa più vicina al volo che abbia mai conosciuto. Anche quando non avevo voglia, anche quando non avrei dovuto.
La corsa mantiene sempre le promesse.

Capisci di essere a buon punto quando, in gergo, scollini. Superi un limite, spesso particolarmente impervio; passi oltre un valico o superi la metà del percorso. Si dice che la via sia più facile, dopo aver scollinato. A quel punto, infatti, chiami a rapporto le forze restanti e inizi a contare non più i km che hai già percorso, ma quelli che ti mancano per arrivare.
Quel giorno, tuttavia, a me non capitò affatto di scollinare.

Ero a pochi km da San Fili. Avevo percorso una lunga discesa che mi aveva portato a valle non senza difficoltà, a causa di grossi tronchi crollati sul sentiero per la tempesta dei giorni precedenti. Avevo percorso circa 42km. Ne restavano 23. Ma era proprio ora che arrivava la parte più dura: l’attraversamento di quella parte dell’Appennino Tirrenico che mi separava dal convento di Paola.
Superai il Ponte Fiumicelle, una struttura in pietra di epoca romana. Ricoperta dall’edera selvatica e circondata da alte querce, permetteva l’attraversamento del torrente Emoli. Sull’altra sponda, al versante opposto di quella collina, c’era San Fili.
Erano le 16:00. Questa volta decisi di staccarmi dalla mappa. Non avrei attraversato il ponte e raggiunto la conclusione della seconda tappa, ossia la statua di San Francesco, nel centro storico di San Fili. Avrei proseguito parallelamente, in direzione Sud-Ovest, aggirando la collina e poi svoltando di nuovo verso Nord-Ovest.
Risalendo la china dall’esterno del paese fino a lasciare San Fili sotto di me.

Quella zona la conoscevo bene. Nel 2016 ci gironzolai un paio di volte. La prima, insieme a Mario, con cui avevo esplorato il versante Nord fino a San Vincenzo La Costa. Quel giorno incontrammo un cavallo che era fuggito dal recinto e in auto, sulla via del ritorno, una vacca si piantò improvvisamente in mezzo la strada.
La tipica gita fuori porta.

La seconda volta, in compagnia del Tronco, esplorammo il versante Sud di San Fili, alla ricerca di due pulmini Volkswagen abbandonati. I famigerati T2 degli hippies. Li avevamo visti di sfuggita dai vetri dell’autobus che ci portava ogni giorno alla vicina Unical. Non ci lasciammo scappare l’occasione. Una mattina attraversammo quei monti, trovando non solo quei due pulmini, ma persino un terzo completamente immerso in un bosco di faggi. Quel giorno mi sentii particolarmente ispirato. Così registrai sul tettuccio di quel Volkswagen una cover di Hard Sun e imitai la posa di Chris McCandless davanti il Magic Bus.
Ci siamo sempre chiesti come diavolo fossero finiti lassù.

Pensai a questi aneddoti mentre affrontavo quella salita così dura. Mi aiutavano a distrarmi e non pensare alle ferite che si erano formate intorno e sotto ai piedi.
Mi si stavano scorticando i talloni. Spinsi di più il peso a monte per camminare sulle punte. Ma non cambiò molto. Ormai si erano aperti. Tempo dopo scoprii che si trattava di una vera e propria malattia, la Sindrome di Haglund. Se ripenso a tutte le volte che mi sono sforzato, non mi sembra vero essermi ridotto ad un ammasso di cicatrici.
Lentamente, riuscii a raggiungere la cima e il mio obiettivo: avevo completato la seconda tappa.
Erano le 16:40.
Sbucai fuori San Fili da una strada privata e deserta. Da lì potevo vedere tutto il paese. Sotto di me, la vecchia strada della Crocetta si collegava alla pompa di benzina e poi alla ss107. Poco più di un mese fa, l’avevo percorsa per andare a laurearmi.
Presi una barretta energetica dallo zaino.
Iniziavo ad essere stanco, ma non c’era tempo di riposare. Presto avrei avuto scarsa visibilità. Dovevo darmi una mossa e tenere duro per altri 22km.

Quando ti trovi nella natura selvaggia avviene un doppio processo sonoro: se da un lato si amplificano tutti i suoni naturali che richiamano l’istinto di sopravvivenza, dall’altro i rumori prodotti dall’uomo o dai suoi mezzi, sembrano improvvisamente ovattati, distanti, strani.
Così, quando sentii una voce alle mie spalle, per un attimo pensai fosse la mia, o quella del vecchio. Ormai stavano coincidendo.
-Ehi! Sei in ritardo!
Mi voltai e poco più indietro, dall’altra parte della strada c’era mio padre, zaino in spalla, diretto verso di me.
-Papa?! Oh, porca…
Pensai che fosse un’allucinazione; non sarebbe stata una sorpresa, quel giorno.
Almeno finché non mi diede una pacca sulla spalla.
-Credevi davvero che me la sarei persa, questa follia?
In quel momento ho capito che tenere un Mandarini al riparo dal rischio è impossibile.
Siamo orgogliosi e testardi.
Per un attimo lo guardai stranito. Non sapevo cosa dire.
Da Carolei in poi, tenevo aggiornati i miei sul percorso per non farli preoccupare; ma non mi aspettavo certo questo.
-Senti, non voglio disturbarti. Mi assicurerò solo che tu completi questa tratta.
È la più dura e lo sai bene. Immaginami come un osservatore, ok?
-Guarda che finora me la sono cavata. Ma, del resto, non posso certo mandarti via.
Bevvi un sorso d’acqua.
-Allora, come mi vedi?
-Hai la faccia di chi non ne ha più e gli occhi di chi non ne ha avuto abbastanza.
Aspetta che ti veda tua madre, ridacchiò. Ora la chiamo.
-Papà!
Gli diedi un’occhiataccia e continuai a mangiare.
-Allora: abbiamo 22 chilometri da fare. In marcia.
-Ehi, merda, aspettami!

Di solito, per chi è fortunato ad averlo, la figura di un padre finisce per essere mitizzata.
Lo si guarda con un misto di ammirazione e competizione.
Ma tutte queste cose, compresa la discussione che avevamo avuto quella mattina, erano svanite. Restava soltanto l’uomo, che con immensa umiltà e coraggio si stava mettendo nelle mie mani.
Ero io a guidare la spedizione, stavolta.
Era mio dovere, ancora più di prima, portarla a termine.
Il suo arrivo mi aveva ridato la lucidità che la fatica aerobica e l’introspezione del vecchio mi avevano tolto.
Pensai a questo mentre risalivamo la vecchia strada della Crocetta in cerca del bivio sterrato che avremmo dovuto prendere.
Per l’ultima parte dell’itinerario, avremmo dovuto tagliare in due tutta la Catena Costiera, presumibilmente al buio e col rischio che qualche animale selvatico ci attaccasse.
Per tutte queste ragioni volevo procedere da solo. Per tutte queste ragioni lui mi aveva raggiunto.

Tentai di immaginarmi padre. Sentii più di prima la responsabilità delle mie azioni e come queste si riflettessero sugli altri. Ripensai ai discorsi fatti durante quel pranzo con i miei a marzo e a quante cose successero subito dopo. Ma riconobbi anche, oggi come allora, la fiducia totale che riponevo nel successo di questo cammino.

Il rischio, quando si affrontano lunghi cammini, non è tanto il dolore ai piedi, le bolle, le vesciche o i crampi alle gambe. Quelle sono, banalmente, le basi che un escursionista impara a conoscere e, col tempo, anche ad apprezzare. Come misura quasi-statistica dello sforzo compiuto e, addirittura, preoccupandosi quando tali problemi non subentrano.
Ci sono vari modi per gestirli: dallo stretching alle pause addizionali, dagli unguenti più o meno naturali, alla meditazione come tentativo di metabolizzare del dolore che stai provando. Oppure, ancora, passando per una fase che io chiamo l’inadeguato orgoglio. Ne parlerò a breve.
Perché può anche succedere che a questi dolori se ne aggiungano altri, più insondabili a primo impatto, e anche più duraturi, con cui si fa fatica a convivere e che peggiorano a lungo andare, limitandoti nei movimenti fino quasi all’immobilità.
Può essere un dolore alla schiena, dovuto al peso dello zaino; un’emicrania cronica che un colpo di freddo acuisce, una storta, una caviglia che si gonfia o anche il bruciore causato dallo sfregamento continuo delle cosce.
Nel mio caso fu la spalla.
Proprio quella di cui parla anche Volare è potere; una sorta di spia fisica che si accende nei momenti in cui il mio corpo arriva al suo limite.

Quando accadde, mi trovavo sopra Cozzo Carrole. Alla fine dell’ennesima salita che ne anticipava un’altra, ancora più dura, fino a Monte Luta (1231m).
Alle mie spalle, un paio di colline sotto di me, San Fili era ormai coperta dal bosco e la valle si intravedeva soltanto a tratti, tra la luce tenue del sole che si affacciava timida tra le nubi neglette.
Avevamo abbandonato da un po’ l’asfalto bucato della vecchia Paola- Cosenza.
Io procedevo in testa e il mio “osservatore” (qualcuno direbbe “salvatore”) paterno restava una ventina di metri da me.
Ci trovammo di fronte alcune processionarie. Erano state bruciate da poco. Non prima di aver distrutto interi alberi. Intorno a noi resisteva un nugolo di tronchi arsi, cavi e rinsecchiti. E più avanti un rudere in pietra e calcestruzzo.
Ci avviammo alla salita successiva. In quel momento, sentii cedere la spalla.
Nessun crack fragoroso, nessuna fitta improvvisa e lancinante. Solo lo zaino che improvvisamente si sbilanciò, con la cinghia sinistra che prese a saltellare, allontanandosi dal deltoide inerte.
Il dolore arrivò subito dopo: ineludibile, costante, straziante.
Era il segno che il mio corpo stava andando in pezzi.
Proprio adesso che c’ero quasi. Mi piegai su me stesso. Stringendo la spalla come fosse un’emorragia da arginare.
Non potevo fermarmi. Non ancora.
Da adesso avrei dovuto camminare dando l’anima e il sangue.
Mio padre mi raggiunse.
-Tutto bene?
-Oh, certo. Gli mostrai il braccio penzolante, sorridendo dolorosamente.
-Ah, niente di nuovo allora!
Come dargli torto. Era successo così tante volte.
Purtroppo, la spalla è particolarmente sensibile e mi hanno sconsigliato di operarla alla mia età. Anzi, il fatto che io abbia continuato ad allenarmi, seppur con i limiti del caso, ha inspessito la cartilagine creando una sorta di cinta che mi aiuta a limitare i danni.

Continuammo a camminare. Alle 18:00 quello che restava di un sole coperto da nuvole neglette era scomparso. In montagna fa buio prima; presto non avremmo avuto visibilità. Procedevamo più lenti, adesso. La salita si inerpicava attraverso le ultime serre cosentine: prima Serra delle Fonde e poi Serra Crociata. Entrambe superavano abbondantemente i 1100m. I movimenti delle gambe erano diventati legnosi.
Passai un po’ di pasta Fissan sulle cosce. Esatto, quella dei bambini. Del resto, come scrisse Hemingway: “Avere il cuore di un bambino non è una vergogna, ma un onore.”
O meglio, mi sembrava l’unica scusa per non vergognarmi troppo di quello che stavo facendo.

La pendenza aumentò proporzionata al dolore della spalla che non trovava pace. Strappai una cinghia dello zaino e la cinsi intorno al braccio. Ma non nessuno di questi era il vero problema.
-Bravo, rompi tutto così non lo possiamo usare più.
-Ma che dici, è solo la cinghia di supporto.
-Perché non mi dai il tuo zaino?
-Perché tu ufficialmente “non sei qui.”
Ma è lo zaino da 20 litri questo?
-Già, me ne serviva uno leggero.
– Ah, bene. Allora perché non mi dai il mio zaino?
-Perché lo uso da così tanto che ormai non è più tuo.
-Dai qua, non fare il testardo come al solito.
-Sei solo un osservatore, ricordi?
-Ma non lo vedi che stai morendo dal dolore?
-Perché non vai avanti tu, papà? Sto io dietro.
-E statti.
A quel punto iniziai a pensare che avere una persona che ti vuole bene, o semplicemente un altro essere umano in mezzo alla natura, non era poi un grande acquisto.
Il cammino sembra darti la possibilità di fuggire; ma in realtà ti sta allontanando da tutto per costringerti ad affrontarti.
Qui arriviamo alla fase dell’inadeguato orgoglio.
E, riflettendoci, avere un compagno in questo scenario fu determinante.

Mio padre, infatti, non tentò di farsi (soltanto) beffe di me, o ricordarmi continuamente che in montagna avremmo avuto meno visibilità e quindi “col cazzo che arriviamo”.
O, ancora, ripetermi ossessivamente le sue preoccupazioni per i cinghiali che di notte avrebbero potuto attaccarci.
E, di nuovo: “col cazzo che torniamo”; “Che gli dici al cinghiale?”
Bensì, fece con me quello che io, mesi dopo e inconsapevolmente, feci col mio amico Don.

Accadde quella volta che andammo a Maratea.
Di buon mattino visitammo la Grotta delle Meraviglie, poi prendemmo il sole (e la sabbia) alla Spiaggia Nera di Cala Jannita e raggiungemmo la vicina Sapri per sbirciare il set del nuovo film di 007.
Infine, quel pomeriggio, decidemmo di incamminarci dal porto fino alla statua del Cristo redentore di Maratea, risalendo un pezzo del cammino di San Biagio.
Lui quel giorno non stava bene, ma era voluto venire lo stesso con me.
Soltanto mesi dopo capii perché.
Non mi ha mai lasciato solo.
Ed ecco cosa accadde:
A Maratea come sulla Via dell’Eremita, il trascinatore amplificava la sensazione di inadeguatezza nel compagno che arrancava lungo il tragitto, per tirarne fuori altra tenacia. Renderlo immune alla fatica, almeno per un po’, non sottolineando i suoi punti di forza, ma le debolezze.
Un po’ come nei Marines.
L’orgoglio a volte può anche essere utile, e questo particolare tipo traeva linfa dalla lotta non tanto contro l’altro quanto contro se stessi.

Ecco a voi l’inadeguato orgoglio.

, non andare a 300 all’ora. Mi innervosisci.
Tu sei fresco, io ho fatto già 42 chilometri.
-E allora! Una maratona dura 42,195metri. Tu ne devi fare altri 21.
-Sì, ma senza le montagne!
-In Grecia dove credi che corressero? Sai com’è fatta, vero?
Pensi che Filippide non abbia incontrato vette sulla sua strada?
-Mi stai facendo sprecare fiato.
-Dici così perché ti ho battuto.

Le differenze tra i due casi però, erano evidenti. Quella col Don non era certo una sfida, a differenza di questa. Quel giorno eravamo ancora bagnati e in costume quando ci siamo arrampicati su per Monte San Biagio, nel tardo pomeriggio.
Arrivammo giusto in tempo per vedere il tramonto dalla vetta, dove sorge la statua del Cristo.

Raggiunsi il centro dell’ultima Serra Cosentina, Serra Crociata (1227m) col sentiero che si faceva sempre più stretto, inghiottito tra abeti e faggi.
Camminammo per qualche centinaio di metri ancora, poi la vidi.
La sagoma dell’appennino si ergeva maestosa, imponente e scura sopra gli alberi alti e affilati dal tramonto fumoso e tetro che ne allungava le forme.
-Forza, siamo all’ultima scalata. ‘Fanculo vecchio.
-Che ti ho fatto ora?
-No papà, non dicevo…non importa.

Dopo le 19:00 eravamo ancora nei pressi di Monte Luta. Della fontana segnata sulla mappa neanche l’ombra. Dovevo aver mancato quel punto dell’itinerario. Il buio non aiutava di certo. Avremmo dovuto farcela solo con l’acqua che ci era rimasta. Dannazione.
Calcolai che mancavano ancora un paio di km per arrivare al punto che avevo raggiunto il 31 marzo.
Tagliai inevitabilmente per il bosco, che si faceva sempre più duro e cupo, risalendo le curve flaccide per il fango e l’umidità.
Un rombo di tuono sulla mia testa mi fece intuire che, a breve, di acqua ne avrei trovata in abbondanza.

Raggiungemmo Piano Luta alle 8 meno un quarto. Lì, il 31 marzo, ormai una vita fa, avevo lasciato una lettera sotto il tronco di un albero caduto.
Poche parole scritte con la mano tremante dal freddo di un’alba senza amore.
Parlavo di come fossi stato stupido in alcune occasioni, di quanto fosse entusiasmante ma anche triste ricominciare senza averne contezza.
E infine di quanto, più di essere amati, vogliamo essere riconosciuti.

Ora, riguardando le fronde mosse dal vento, il cielo illeggibile e freddo caustico che annunciava un temporale fuori stagione, speravo che quelle mie stesse parole fossero andate distrutte o fossero illeggibili.
Il tempo in montagna cambierà pure repentinamente, ma non quanto la vita.
In testa avevo una certezza: da quel punto in poi restavano circa 12km per arrivare al Santuario.
E li avremmo affrontati con una tempesta di acqua e vento.
Ne sarei stato all’altezza?
-Io mi fermo a pisciare.
-D’accordo, mi trovi più avanti.

Feci soltanto qualche passo. Non volevo darlo a vedere, per effetto dell’inadeguato orgoglio, chiaro; ma avevo bisogno di una pausa.
Mi sedetti per terra, dolorante. Col respiro pesante, ammassato sotto le membra che tremavano dallo sforzo.
Se avessi voluto cavarmela anche stavolta, avrei dovuto recuperare ossigeno nei muscoli.
La spalla mi diede un’altra fitta. Adesso stavano diventando più frequenti.
Per un attimo, vidi le stelle ardere oltre le nuvole di pioggia che coprivano il buio; e poi, di nuovo, i talloni sanguinanti sotto i miei stivali da trekking affondati nel fango.

-“Sei tutto rotto”
D’un tratto sentii la sua voce. Era lei.
Il suo tono un misto di disgusto e compassione.
Mi guardai intorno, come se potessi davvero vederla apparire da dietro un albero e cingermi le spalle. Sapevo di immaginarla; il vecchio stava usando ogni patetico appiglio per tirarmi fuori dal mio abisso e rimettermi in cammino.
Quello che lui non capiva era che questo appoggio, troppo fragile e scoperto, rischiava di farmi cadere ancora più in basso.
La fatica gioca strani scherzi, ma sono niente rispetto a ciò che può fare un cuore a pezzi.
E prima che ignorassi il calore avvolgente di quella voce sulla mia pelle, i miei ricordi avevano già risposto:
-“È vero, ma ti ho amata anche così.”

Ricordai una domenica, uscii presto di casa.
Quando restava a dormire da me, il mattino dopo le facevo trovare un vassoio con 2 o 3 cannoli.
Sì, sembra strano a ripensarci, ma in quel bar ormai ero un cliente fisso. Senza mangiare, avrebbe detto il Don.
Quel giorno le presi anche una rosa. Dormiva ancora quando tornai.
Cosi rimasi ad accarezzarle i capelli. A osservarne la postura, i lineamenti. Era così dolce. Mi tolsi la giacca e mi accoccolai ad un angolo del letto.
Qualche giorno dopo la nostra storia finì.

Una volta ho letto, da qualche parte: “come si può odiare una donna se la si è vista dormire?”
Ecco perché non ha senso odiarti, dopotutto.
La spalla era ancora dolorante quando provai a rialzarmi. Dovevo andarmene da lì.
Mi dissi: “Sembri proprio uno che è andato avanti con la sua vita! Sei ancora qui, merda.”
Sorrisi teneramente. I ricordi sono stati la bussola della mia poetica.
-Beh, ci sono anche io. Rispose l’eco della voce che mi restava di lei.
Quelle poche sillabe deflagrarono più dei tuoni sopra la mia testa.

Della nostra storia mi era dispiaciuto il modo in cui era finita.
Certo, raramente le storie finiscono bene.
Essere “complici” in amore è straordinario, ma ha la stessa radice di “complicato”.
Probabilmente eravamo diversi, troppo. Questo alla lunga può sfiancare qualsiasi rapporto. Ma se ci riflettiamo, la nostra intera vita è un atto di separazione.
Per questo sentivo ci fosse bisogno di un addio.

La verità è che ne abbiamo dimenticato l’importanza. Pensiamo sia una parola immatura, ne abusiamo. O, come accade nella pratica mediale del ghosting, la ignoriamo.
Invece non è così scontato.
La fine di un amore vale quanto il suo inizio.

Forse, quello che la mia immaginazione stava facendo, era darmi l’occasione di dire addio.
Adesso anche il fruscio di vento tra i rami del bosco sembrava l’eco del suo nome.
Mi appoggiai ad una roccia. Bevvi un sorso d’acqua con il braccio buono.
Ripensai ad alcuni particolari: la sua mania di cambiare volume cinque numeri alla volta,
il modo in cui le si affusolavano gli occhi quando sorrideva, le fossette sulle guance mentre si truccava nel mio bagno.
L’anta del mobile era intonsa di strip per la ceretta, acqua micellare e panni rotondi di cotone, o come diavolo si chiamassero.
Ricordo l’ultima volta che l’aprii. Stavo prendendo delle misure insieme al Don.
Trovai lo sportello vuoto.
Rimasi fermo, a guardarmi allo specchio come quando ero io a osservarla.
In quel riflesso tenue sotto la luce pallida, lei c’era ancora.
Ma quei ricordi erano ancora reali?
Erano ancora nostri o non erano più neanche miei?

-Sai, ti ho amata come ho percorso questo cammino: non al mio meglio ma al meglio che potevo. Non ero pronto. Del resto, quando lo si è?
-Quando stai con la persona giusta. Tu non lo eri. Io credo nel destino, te lo indica lui.
-Io no. Credo nella fortuna. Le sorrisi. Spesso tornavamo su questo argomento. E continuai:
-Volevo prendermi cura di te. Anche se, forse, non ne avevi bisogno.
La tua storia mi aveva commosso. Ma non era per quello che stavo con te. Ti amavo prima di saperlo. Mi avevi già convinto al ciao.
In quel periodo, tuttavia, non sapevo caricarmi sulle spalle neanche la mia vita. Ci si illude di fare del bene e di essere grandi per questo, quando invece ci si vorrebbe solo salvare da se stessi.
Sei capitata in un momento strano. Già, che stronzata sentirselo dire.
Ero preoccupato e così ti ho allontanata.
Ma, giuro, raramente mi ero spinto tanto oltre per una donna.
Non sono bravo come ora a guardarmi dentro. Avevo perso fiducia in me. È stato il vecchio ad aiutarmi.
Fino a quel momento avevo ignorato che, insieme a me, anche tu soffrivi.
L’ho capito quando già non c’eri più. In fondo, so che è stato meglio così. Per entrambi.
Buttalo questo mio amore; dove vuoi, con chi vuoi. Se potessi lo farei io stesso.
Ma non se ne andrà. Rinnegarti annullerebbe anche me stesso.
-Perché riconoscersi è abitarsi e non si riconosce se stessi se non nell’altro.
-Te lo sei ricordata. O forse dovrei dire che me lo sono ricordato io. Non importa.
Sai, ogni tanto ho immaginato come sarebbe rivederti dopo tanto tempo.
E, se avessimo parlato di nuovo, cosa ci saremmo detti.
Se dopo anni meritassimo una seconda occasione, come in Persuasione; o se è vero che non esistono luoghi e tempi diversi da quelli che abbiamo già vissuto.
E allora dire “ci rincontreremo più avanti” resta una bugia cocciuta che ripetiamo all’altro, e anche a noi stessi, quando non vorremmo cancellare ciò che abbiamo già perso.
È vero, sono andato avanti con la mia vita. E tu con la tua.
Ma non ti ho mai dimenticata.
Tenerti nei miei pensieri mi ha permesso di ritrovare molte cose buone, più di quanto immaginassi.
Quel gigante di Massimo Troisi ha detto:

“Quando si smette di amare, in genere non si ha la pazienza di aspettare che finisca bene.
Si cerca la strada più breve: la rottura, la sofferenza.
Invece ci vuole lo stesso impegno e la stessa intensità dell’inizio, bisogna superare gli egoismi, vivere questo momento con la stessa passione, far sentire alla persona lasciata tutto il bene che c’è stato: ci vuole amore per chiudere una storia.”

Non so se amerò di nuovo in quel modo. Ma se accadrà, lo accetterò custodendo la consapevolezza di quel bene che ho ricevuto e che ho voluto conservare.
Come mi avrebbe detto il Don soltanto pochi mesi dopo, mentre correvamo su per la salita che ci avrebbe portato, un’ultima volta, a Fiumefreddo Bruzio: “Il bene non ha tempo.”

A quel punto, mi aspettavo di sentire di nuovo la sua voce.
Guardando nell’unico spiraglio di cielo chiaro, che illuminava le fronde attirate dalle linee oblique della luna, mi sarebbe bastato sapere che, in quel singolo momento e soltanto in quello, anche lei pensasse ai momenti semplici e magici che avevamo passato.
Ricordi ciò che dicevamo?
“La strada è dritta; non la piegano le buche.”
Così immaginavo di ricevere un segno: qualcosa che donasse pace a entrambi o, forse, solo a me.
Invece tutto ciò che sentì fu la voce secca e scura del vecchio:
-È ora, ragazzo.
La mia vecchia idea di uomo era convinta che le cicatrici piacessero alle donne.
Le mie, però, non si vedevano.

La prima goccia di pioggia sui capelli mi risvegliò da quel torpore.
Fu come rinvenire, riappropriarmi dei miei sensi.
Sentii finalmente il freddo scuotermi le ossa dalla roccia.
Alzai la testa.
I lampi squarciavano il cielo addensato di nebbia; rombi di tuono deflagravano incalzanti, la loro eco si insinuava nei pertugi degli alberi, nelle fosse sul terreno, sui rami spezzati e le foglie cadute.
Il diluvio imperante stavolta aveva ben poco di amabile.
Iniziò a colpirmi, compatto. Le gocce cadevano come pietre sulla pelle.
Avvertii come una mano alzarmi da terra. Dal buio che sopraggiungeva.
Immaginai che fosse mio padre, tornato indietro a prendermi.
E invece era ancora lui. Il mio alter ego invincibile e il testardo: il vecchio.
-In piedi, ragazzo mio. Un ultimo sforzo.
Appena lo vidi, capii che era arrivato il momento della mia rinascita.
Sembrava più giovane dell’ultima volta che lo avevo descritto in Volare è potere.
Le ampie rughe restavano sul suo volto. Ma non erano più distorte dal dolore del tempo e dalla fatica del pensiero; si muovevano, leggere, nel sorriso sardonico ed eterno della passione per l’avventura.
La mia anima multiforme aveva completato la sua metamorfosi.
-Ora sai cosa significa camminare, ragazzo: diventare altro da sé.

Avevo percorso i chilometri più alti e profondi della mia anima in cerca di qualcosa che neanche c’era. Così l’ho creato. Il vecchio.
Il giovane si era trascinato colpe e rimpianti, che forse, neanche gli appartenevano più. Aveva subito il ricordo da vittima e non l’aveva valorizzato da custode, come gli aveva insegnato il vecchio della memoria.
Ma, in quel mio lungo tentativo di redimermi, anche quei ricordi sono diventati miei.
Come i versi che ho cercato di dedicare.
Ripensai all’ultimatum che il vecchio mi aveva posto all’alba di quel giorno.
Il momento di decidere era arrivato.
Avrei sconfitto i miei limiti o li avrei accettati?
Finalmente stavo per rispondere, quando lui mi precedette e disse:
-“Hai già scelto. Sono con te.”

Raggiunsi mio padre poco più avanti. Il temporale ormai era fitto sopra le nostre teste e la luce stanca della luna era ricoperta da nubi più nere del notturno.
-Siamo rimasti sottotraccia per troppo tempo. Annunciò mio padre.
-È vero, abbiamo mancato un paio di segnavia.
Non abbiamo linea qui, dobbiamo scendere di quota per capire dove siamo.
Questa cazzo di pioggia non accenna a diminuire.
-Ce la caveremo. Gli risposi.
Da qui in poi conosciamo la strada.
E mi voltai, indicando nella direzione in cui immaginavo ci fosse il vecchio.
Il mio alter ego era proprio dietro mio padre; con le braccia aperte, ad affrontare di petto il suo destino. Urlava al cielo:
“Ehi, tu! Dico a te! Lascia pure che venga giù tutto! Forza, avanti! Di più, coraggio!
Io completerò questo cammino!”
Trattenni a stento le risate, commosse e felici.
Testa e corpo avevano ripreso a remare dalla stessa parte.
Adesso l’adrenalina scorreva a fiotti, né la spalla né la gamba erano più dolori insopportabili.
Il mio sangue testardo era riscaldato dal fuoco della riscossa.
Il mio orgoglio si sentiva più inadeguato.
Ma non era ancora finita.
Ci apprestavamo a percorrere gli ultimi 12km nelle peggiori condizioni metereologiche e di visibilità che avessi mai visto.
-Ricordi il percorso che hai fatto due mesi fa?
-Sì. Stammi dietro. Possiamo tagliare in un paio di punti.
-Come li vedrai?
Non li vedrò affatto. Li sentirò dentro.
-La tua arroganza ci farà ammazzare.
-Un giorno, forse. Ma non oggi.

Pioveva, cazzo quanto pioveva.
Oltre la tempesta brutale che frenava la mia avanzata, avevo i talloni che sanguinavano, i calzini attaccati alla pelle viva e scorticata e ripetevo a gran voce le incitazioni del vecchio:
-Coraggio ragazzo! Può venire giù tutto, noi vinceremo questa sfida!
-Come dici tu, rispose mio padre in lontananza, la sua voce attutita dall’acqua. Ma se si aprisse un po’ il cielo non sarebbe male. Occhio, qui si scivola. 

Stavamo affrontando la discesa che da Monte Luta ci avrebbe portato in località Tubo di Ferro e, più giù, all’Orlo. Dove si trovava la vecchia casa in montagna di mio nonno.

Disascesi è il titolo di una vecchia poesia che ho scritto. Sull’importanza di non sottovalutare il rischio. Spesso, quando si scende da una montagna, si ha la sensazione che il pericolo sia finito. Ci si rilassa. In fondo, è molto meno faticoso scendere che salire. La freschezza e l’adrenalina ti hanno tenuto lucido mentre scalavi fino in cima. Adesso la valle è proprio laggiù. Il peggio è passato.
Invece quello il momento più esasperante e difficile di un’escursione. Bisogna essere bravi a gestire la stanchezza e l’emotività che prevalgono. Basta un momento e sei culo a terra. Col peso del tuo corpo e del tuo carico sulla caviglia che cade malamente. Hai chiuso.

Il tratto che affrontavo era piuttosto insidioso.
Ad un tratto sentii il cuore battermi fin sopra il petto. Prima a sinistra, poi a destra.
Sulle costole, in gola, sulle tempie, sotto il plesso solare.
Pensai di stare male. Non potevo permettermelo. Avevo paura. Mi piegai a sputare e parlare al mio cuore:
“Non ora, resisti. Ti prego. Ci sono quasi.”
Mi trovavo in mezzo a una ripida curva che piegava a destra.
Era molto scivolosa e dovevo scendere prima che l’acqua piovana che si stava raccogliendo ai bordi del tracciato e si era insinuata tra le rocce aguzze, inondasse completamente il terreno.
Ricordo di essere passato di lì il 31 marzo, subito dopo aver scattato la fotografia che ritraeva la mia ombra riflessa sul selciato e gli alberi adiacenti.
La stessa foto che ritrovai in quel pomeriggio uggioso, mentre il Don ripuliva il ripostiglio.
L’inizio del cerchio piatto che avrebbe raccontato questa storia.
-Il tuo cuore non vuole più nascondersi, ragazzo. È così grande da poter essere ovunque e in nessun luogo.
-Cosa succede se gli do retta?
-Magari stavolta non finisci culo a terra.
-Ah! Vecchio romanticone! Se fosse stato così semplice non mi avresti mai accompagnato in questa odissea.
Touché. Ma non chiamarla così, in fondo è durata solo un giorno. Il termine “epopea” è più adeguato. Persino per uno come te.
-Ehi, osservatore!  Dissi a mio padre sull’altura. Ho trovato qualcosa.
Puntai tutte le torce alla mia sinistra e illuminai la fontana, il tubo di ferro, poco più in basso.
Vidi dei fiori in un cesto; un paio di lumini illuminati dall’ennesimo lampo. E un’effige di San Francesco di Paola.
Non guardai molto. Intorno a me si era venuto a creare una vera fiumara d’acqua piovana.
-Diamoci una mossa.
-Abbiamo avuto fortuna. Siamo venuti giù appena in tempo.
Ricordai che da quel punto in giù non c’erano grosse pendenze da affrontare. Solo un punto in cui si deviava a causa di alcuni alberi caduti sul sentiero e il guado di un torrente. Avevo i piedi in fiamme. Ma non avevo ancora finito. “Coraggio ragazzo.”

-Sono pazzo, vecchio?
-Di certo chi ti vuole bene lo è.
-Ehi, grazie dell’aiuto. Ti preferivo all’inizio, quando non parlavi.
-Allora cerca di non stancarti.
Camminavamo nella notte interrotta dai fiochi lumi della luna. Eravamo sfilacciati:
lo spirito del vecchio, mio padre ed io. Tutto era nero nel sottobosco.
Persino la luce della torcia veniva inghiottita dall’oscurità.
Ma perlomeno aveva smesso di piovere.
-Ascolta, non sempre si è lucidi. Quello che attraversiamo ci dà una forma e poi ce la cambia. E nel momento in cui ce ne accorgiamo, pensiamo di essere pazzi. Ma non è così. Sei solo spaventato. La solitudine è un’arma a doppio taglio.
Ti libera soltanto se sai stare bene con te stesso. Tu…ci stai lavorando, ecco.
-Ah, con te di sicuro, brutto strizzacervelli del cazzo.
Provai a ridere, ma la spalla mi faceva troppo male.
Il vecchio si accinse a farmi appoggiare su di lui. Avevo ripreso a zoppicare.
-Questa voce che senti non è più reale delle tue paure. Puoi amarle o sconfiggerle; ma non nasconderle più. Uccideresti anche la tua bellezza.
C’è sempre qualcuno che ti apprezzerà senza preoccuparsi delle tue stranezze e di queste cicatrici. Non perché sarà innamorato di te, ma perché gli avrai permesso di conoscerti.

Mentre con la torcia scacciavo il buio che avanzava persino dentro me, sentii qualcosa avanzare alle mie spalle.
Un tonfo sordo.
Pensai al peggio ed esitai a voltarmi. Guardai davanti, in cerca di un riparo, forse sperando di essere ignorato. Strinsi il bastone e sfoderai il coltello. Poteva essere un lupo, o un cinghiale. Ero pronto a voltarmi e affrontarlo. Invece un attimo dopo questa presenza mi superò e la vidi distintamente.
Non era una bestia. Era un ragazzino.
-E questo chi diavolo è?
La sua sagoma sfrecciò nel buio, stagliandosi sopra la luce della torcia. Poi si attestò qualche metro più avanti sul sentiero. Come a farmi da guida, o sfidarmi a chi sarebbe arrivato prima.
Dopo le emozioni di quel giorno, che ciò che vedevo fosse reale o immaginario non aveva più importanza.
Il ragazzino era più magro di me, si muoveva agile e rilassato, come corresse di ritorno sul vialetto di casa.
Sfuggendo alle inquadrature della luce, proseguiva con ampie falcate, lanciandomi ogni tanto uno sguardo per vedere quanto distacco mi aveva già dato.
Spalle larghe, braccia magre, capelli lunghi agitati sotto la pioggia di nuovo scrosciante.
Aveva qualcosa di familiare.
Continuai a inseguirlo, senza fare troppe domande, subendo drammaticamente il dolore dei miei muscoli che si infrangevano sulle pietre scivolose.
Ci misi un tempo stranamente lungo per capire che ero io stesso, diversi anni prima.
A quel punto gli urlai contro e chinai il capo.
-Guardalo bene, ragazzo. Quello siamo noi, quando eravamo una cosa sola, prima di tutto questo.
Prima ancora del giovane e del vecchio, esisteva solo quel ragazzino.
Un corridore di nuvole, con le scarpe sporche di cielo.
Te lo ricordi ora?
-Come…come ho fatto a perdermi?
Sai già la risposta. Piuttosto dovresti chiederti: Come hai fatto a ritrovarti?
Cosa ti ha spinto, in quell’alba scura e piovosa di sei anni fa, a battezzarti “scrittore della
memoria?”
Se ci pensi, quel giorno non è poi così diverso da oggi.

“Di tutte le cose esiste un cammino che volge a ritroso. Indifferente è per me da quale parte incomincio; infatti lì tornerò di nuovo.”
Parmenide, I Frammenti 5, 6.

Tutto ciò che sei stato puoi esserlo ancora, ragazzo.
-E se…
esitai a lungo prima di completare la frase, alzando gli occhi contro gli ultimi scampoli di pioggia che mi ferivano la vista;
non volessi più essere lui?
-Certo, dimenticare la propria biografia può farti bene, nel breve periodo. Magari allontanarti dalla tua storia ti sarà anche utile per scrivere qualcosa di buono.
Poi, però, quando ricomincerai a lottare, ti accorgerai che i problemi si affrontano grazie
all’esperienza dei ricordi.
Non puoi vivere a lungo voltando le spalle al passato: è fare i conti con la tua memoria che ti rende degno di essere amato, ragazzo.
-E allora chi sono adesso, vecchio?
-Ti restano 8 km per pensarci.

31/03/2019

Lo sforzo è un viaggio, ragazzo;
lascia che la tua vita ti ami
arrampicati sopra il tuo cuore,
appoggia la paura sull’alto pertugio
imboccato dal sole.

Affrontare un cammino significa scoprirsi fragili e ritrovarsi forti.
Avevo faticosamente raggiunto i pressi di località Timpone del Gioco.
Erano quasi le 22 e di quella enorme tempesta era rimasto solo il vento.
Camminavo a ridosso della timpa, letteralmente due passi al lato del dirupo. Le torce danzavano sulla mia testa; ma era la luce della luna, coperta e nascosta, a farmi da guida. Insieme a me e, al vecchio e a mio padre, anche la luna si faceva strada tra la nebbia della notte, come un gregario che si sacrifica affinché il compagno raggiunga la vittoria per la squadra.
Guadai le acque assordanti del torrente San Domenico e mi ritrovai ad arrancare per un lungo rettilineo, al cui termine sorgeva la vecchia casa in montagna di mio nonno.
Il sentiero era nascosto dall’erba alta, fradicia e rugosa.
Proprio lì, il 31 marzo, il vecchio mi parlò per la prima volta:

“Lo sforzo è un viaggio ragazzo.”

L’alba quel giorno non era neanche sorta dalle vette ad est.
Le guardavo con sfida, immaginandomi come sarebbe stato questo giorno.
E cosa avrei provato quando, alla fine del mio cammino, sarei ripassato da lì.
Il buio congelato accompagnava ogni passo mentre scrivevo i versi sull’aria tangibile e dura.
Per tutta la notte tra il 30 e il 31 marzo aveva piovuto.
Così mentre camminavo sopra la notte che si addormentava, il silenzio rotto soltanto dall’eco della pioggia appena cessata, sapevo con certezza che andavo nella direzione giusta.
Senza quei 25km, devastanti per le conseguenze che hanno avuto su di me nelle settimane successive, oggi non sarei qui.
Se non avessi fatto quella ricognizione dell’ultimo tratto, consapevole che oggi vi sarei giunto al buio, probabilmente mi sarei perso.
Quell’avventura mi ha fatto soffrire; ma mi ha anche salvato la pelle.
E ora che, di nuovo, camminavo sopra la notte e anche sopra la mia memoria, con il cielo scuro e muto che si apriva e lasciava intravedere le stelle, tutto assomigliava ad un cerchio che stava per chiudersi.

A quel punto, la luna si scostò dalle ultime nubi e illuminò il mare.
Le onde luccicavano. E così anche i miei occhi.
Proseguii ancora e raggiunsi il luogo dove mio nonno aveva costruito quella casa: un terrazzamento naturale, una piccola pianura ai confini del pendio, l’Orlo dove il mare e montagna sono continui e non più contrastanti.

Poco più avanti iniziava l’asfalto. Neanche due km sotto di me, dopo una discesa ripida con vista mozzafiato sul litorale paolano, rumoroso e illuminato dalle luci del sabato sera, c’era il Santuario.
Ero arrivato nel giardino di casa.

Fu come ricostruire un viso che avevo sognato migliaia di volte e immaginarne il panorama che dall’alto ritornava a valle insieme a me.
Camminare è descrivere un’emozione.
Ma per riuscirci, bisogna avanzare sull’orlo di sé senza timore di cadere nel buio.
-Era così la scrittura per te, vecchio?
-Lo hai già scritto, ragazzo. Mi ammonii.
-Ma nel libro sei tu a prenderti il merito!
-Perché sono più anziano. Ammiccò.
Ormai percorrevo il buio ad ampie falcate, sembrava calpestassi soltanto aria.
Superai l’Orlo e iniziai la discesa lungo la strada asfaltata. C’erano parecchie case in quella zona. Il 31 marzo vi trovai diversi cani di guardia.
Uno di questi mi accompagnò fino all’imbocco della statale. Gli dissi che ci saremmo rivisti il giorno del cammino.
Non lo trovai stavolta. Forse il mio odore era cambiato e non mi riconosceva più.
Forse ero io quel cane che aspettavo.

Uscii dalla contrada poco illuminata e raggiunsi la ss18. Alle 22:30 il traffico era sporadico e per questo dovevo stare più attento. Un’auto su una strada deserta corre più veloce.
Per fortuna, dovevo percorrere poche centinaia di metri.
Non sentivo più dolore, i talloni non sanguinavano più.
Persino la spalla non mi faceva più così male.
-Ci sei papà?
-Sono dietro di te.
-D’accordo. Io…vado avanti da solo adesso.
-Chiamo tua madre per venirci a prendere. Ci troviamo tutti al parcheggio.

Attraversai il ponte metallico e tagliai per una strettoia pedonale sulla destra che mi portò alla salita del Convento.
-Grazie, vecchio. Non ce l’avrei mai fatta senza di te.
-Vorrai dire senza te stesso.
Ogni parola pronunciata dal vecchio appariva sempre più leggera ora.
Quella voce spessa, indurita, stratificata si era fatta più mite e lontana.
Il vecchio stava scomparendo dalla mia testa.
Per tutto questo tempo non avevo desiderato altro: andare avanti con la mia vita, senza sentire più la sua presenza opprimente.
E ora, mentre attraversavo il cancello del Santuario di San Francesco di Paola. sfilandomi la cinghia che mi aveva tenuto ferma la spalla penzolante per gli ultimi14km, non trattenni più le lacrime che si erano accumulate durante il viaggio.
Non piangevo per aver completato il cammino. Piangevo perché stavo per perderlo.
Il vecchio e il suo cammino sarebbero diventati solo un altro, meraviglioso, ricordo.
-Sii grato al dolore, ragazzo. Ha molto da insegnarti.
C’è chi non può provare neanche quello. Scrivi e lotti anche per loro, ricordi?

Non ci pensai quel giorno, concentrato com’ero a sfidarmi e vincere. Capii il vero senso delle parole del vecchio soltanto qualche tempo dopo. Quando mi ritrovai in quello stesso Santuario, al funerale più inaspettato e difficile a cui avessi dovuto partecipare. L’ho capito oggi che scrivo il finale di questo racconto. Oggi che molte cose sono cambiate. Oggi mi commuovo ripensando ad una persona straordinaria, che voleva vivere la natura con la stessa sensibilità con cui aveva vissuto la sua vita.
Nei mesi successivi ho pensato di dedicargli un’avventura folle: 100km nel deserto portandomi dietro qualcosa di lui.
Forse, era soltanto il mio ego a parlare.
Tuttavia, ci ho pensato nelle settimane e nei mesi successivi; persino al pranzo di Natale.
Avrei voluto passare più tempo con te, non ci si conosce mai abbastanza.
Un anno dopo, non sono più sicuro se questo sia davvero il modo giusto di onorare una promessa detta su due piedi a una festa di mezza estate, sazi e alticci.
Ma ci penso spesso.
Perché quella è stata l’ultima volta che ti ho visto.

Mi è sembrato di rincontrarti, a settembre, in un volto sfuggente su un pullman che mi portava a Milano. Dalle parti di Rozzano. Dove eri passato anche tu. Cazzo, ti eri fatto persino più alto di prima. Poi ho guardato bene; la mia immaginazione è un soffio di vento sulla vetta insondabile dell’esistenza. Non eri tu, ma c’eri anche tu in ciò che vedevo.
-Ehi, vecchio, mi passai il braccio sul volto, come quando da piccoli si ha paura di mostrare i propri sentimenti anche a se stessi.
Ti sentirò ancora?
-Sarò con te nel rischio, ragazzo. Quando l’avventura si riprenderà il tuo corpo e disprezzerai così tanto la tua stessa incolumità da dimenticare i miei insegnamenti. Quando smetterai di riconoscere i tuoi limiti, e penserai che niente possa toccarti.
Allora sarai tu a rivolgerti a me, e io tornerò a ricordarti ciò che hai dimenticato.
Ti coprirò le spalle per un’altra corsa.
Stammi bene, ragazzo.

Superai l’angolo e raggiunsi lo spiazzo pedonale che portava alla facciata dell’antico convento.
Battei il mio bastone sullo stesso terreno che, seicento anni prima, fu battuto da San Francesco di Paola.
Anche sei secoli dopo sarebbe stato un campione di endurance.
A quel punto, senza pensarci, dissi:
-Coraggio vecchio.

Ripensai all’alba, quel mattino stesso, quando nella caverna lo dissi per la prima volta. All’inizio di questa avventura. Sorrisi.
Quanto tempo era passato?
Soltanto 14 ore sull’orologio; molti anni nella mia memoria.
Il vecchio non rispose. Così lo ripetei un’altra volta.
Questa volta con voce profonda e solenne. Come la sua.
-Coraggio, vecchio.
Per tutto il cammino, e anche prima, era stato lui a ripetermelo: “Coraggio ragazzo.”
Ora ero io a farlo per lui.
Gli stavo dicendo addio.

 

31/12/2019

Il senso primo dell’atleta è la relazione.

In questo, Volare è potere è stato un inno al riconoscimento e al contatto.
Condividere lo sforzo e scrivere per gli altri, per chi non può e avrebbe voluto.
Come Alessio.
Lo sforzo è un viaggio, il volano delle mie emozioni.
Così ho rindossato la mia armatura per un’altra corsa.

Quando dovrò smettere vorrei poter dire che non ho sprecato questa fortuna.
Senza muovermi per sentieri tracciati, ma abbracciando l’ignoto nel punto di massimo pericolo, in cui la paura non esiste più.
Tutto per guadagnare il rispetto di me stesso
Non smetto di considerarmi inadeguato;
ma non ho più quel peso sulle spalle che mi impediva di muovermi e persino di parlare.
A quello ci ha pensato la scrittura.

 

-Simone con una birra! E quando mi ricapita!
-Ti prego, non glielo dire! È già un miracolo che se la beve senza fare parole.
È da poco passata l’una e trenta. La movida paolana inizia a scemare. Sono uscito col Don appena un’ora dopo aver completato il cammino. Abbiamo fatto un giro in piazza e poi siamo finiti, come ogni fine serata che si rispetti, al locale di Nicola.
-Mi servono sali minerali, ragazzi! Sto ancora bruciando calorie.
Tintinniamo i boccali.
-Ecco qua, sembrava strano.
Nicola sorride e ci lascia i panini che abbiamo ordinato.
Più tardi, fuori il kebab, mi appoggio a uno dei pali di metallo vicino l’ingresso.

Davanti a me, ondate di ragazzi andavano verso i propri mezzi parcheggiati. Intravedo un volto familiare. Quei capelli. Non importa più.
Sorrido e termino il mio terzo boccale. O forse è il quinto.
-Ehi, guarda che fra poco lo pieghi!
Il Don indica il palo di ferro e mi mette una mano sulla spalla.
-Raccontami com’è andata.

Qui arriva il punto della storia che non ti ho ancora raccontato, Don.
Questa volta non ci sei tu, nella batcaverna, a mangiare e scherzare sul finale del mio racconto.
Siamo a più di mille chilometri di distanza. Mi sento solo.
Ma mi basta sapere che stai bene per essere di nuovo felice.
Volevo scrivere un’espansione delle avventure del vecchio e del giovane.
Non so se ci sono riuscito. Ma l’ho completata proprio oggi.
Esattamente un anno fa, usciva Volare è Potere.
Penso che un giorno una versione rivisitata, romanzata, magari meno (molto meno) autobiografica di questo enorme racconto diventerà un libro. O un film. Certo, come no.
Ma dovesse accadere, stai pur certo che pretenderò una comparsata per entrambi.

Oggi però, volevo consegnare questo cammino in prosa, nella sua forma più grezza, pura e multiforme.
Con questo, si chiude il periodo della mia vita, e della mia carriera, dedicato al vecchio e al giovane.
Ho già in mente nuovi personaggi.
Ma non posso scriverli senza di te, che sei fonte perpetua di ispirazione e imitazione.
Ti voglio bene.

E così provo a immaginarlo, il mio finale migliore.

-Allora, hai chiuso con l’avventura?
-Beh, l’anno prossimo potrei ripetere il Kalabria Coast to Coast; sai, hanno aumentato il percorso e…

 

Questo sito web utilizza Google Analytics. Fai clic qui se vuoi disattivarlo. Fai clic qui per disattivarlo.