Non ci si allena mai per se stessi

Non ho mai creduto che ci si alleni solo per se stessi.

Lo sforzo ci fa tornare a noi, è vero: favorisce un autoriconoscimento che metta a fuoco bisogni che non esprimiamo o addirittura non sappiamo di avere. Ci fa restare lucidi, ci da forza, ci spinge a fare di meglio.
Se ci pensiamo, le motivazioni provengono dall’interno; eppure continuano e si mantengono all’esterno.

Che si tratti di trofei rilucenti o medaglie da appendere al cuore; che comprenda la conquista di vette impenetrabili o solo di un sentiero che riporti a casa; che riguardi competizione, adrenalina, estetica, affetto, stima, riconoscimento, reciproco o asimmetrico in base alla fama acquisita; che condivida esperienze e faccia sentire parte di un gruppo o, addirittura, una leggenda da idolatrare: non siamo mai soli in quello che facciamo.
L’ego conta e ha senso perchè ci sono sempre gli altri.
Anche- e soprattutto- quando non li vediamo.
Essere un atleta diventa inevitabilmente- e spesso inconsciamente- una relazione con ciò che abbiamo e che ci manca, con un altro che non siamo noi e di cui non possiamo fare a meno.

Può rappresentare un atto di profonda socialità, ma anche di solidarietà e altruismo nella vita quotidiana.
Lo sforzo fisico conduce ad uno morale: “creare o nutrire una relazione.”
Il principio è lo stesso del Dono: lasciare qualcosa di sè, un’offerta di riconoscimento all’altro, nella speranza- non la pretesa- di essere accolti e ricordati.

Si sceglie se diventare atleti. Ma spesso non si sceglie di che tipo. Le nostre inclinazioni naturali, la genetica, il contesto socioculturale in cui si vive, le motivazioni incidono in larga parte. Ma c’è una cosa che sovrasta ogni categoria e ne determina il cammino: i sentimenti.
Ogni vero atleta è un atleta dei sentimenti.
Ma molti lo ignorano.

Filippide non corse i 42195m fino a Maratona solo per se stesso, ma per salvare la sua Atene.
Yuri Chechi tornò alle Olimpiadi 2004 dopo aver già vinto l’Oro nel ’96 non per se stesso, ma per mantenere la promessa fatta al padre malato.
Vinnie Paz non tornò sul ring dopo un terribile incidente solo per sè, ma per dimostrare ai medici-che lo davano per spacciato- quanto si sbagliavano.
Con Zanardi questa esperienza è stata ancora più toccante, visto l’impegno sociale e la sensibilizzazione portata avanti attraverso le sue imprese.
CR7 non cerca nuove sfide solo per battere record individuali, ma essere riconosciuto come il migliore dagli altri, detrattori inclusi.

Gli esempi in questa prospettiva diventano sterminati. Ne avrei un altro, ma sotto questi nomi risulta inappropriato.

Per concludere, essere un atleta (dei sentimenti) è sempre un atto relazionale, ma può rappresentare anche una forma di dono e, insieme, una delle più alte forme del servire.

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