Il senso degli altri: sul riconoscimento dell’interdipendenza

Introduzione

 

“La libertà dell’autorealizzazione dipende da delle premesse di cui il soggetto non può disporre da sé solo: possono essere ottenute soltanto tramite l’ausilio dei suoi partner all’interazione.”

 

Così scriveva Axel Honneth, teorico critico allievo di Habermas ed esponente della terza generazione della Scuola di Francoforte, in Capitalismo e Riconoscimento (2010) partendo dai concetti formali elaborati dal giovane Hegel del periodo jenese e dalla psicologia sociale di Mead.

Riflettere sul tema del Riconoscimento, nelle sue diverse forme e implicazioni, è diventato, ormai da diversi anni, centrale nello studio della Sociologia.

Dalle tendenze della modernità che nascondono la rete di appartenenze all’idea neoliberista che attribuisce agli individui lo stigma dell’isolamento, per citare Margaret Thatcher: “La società non esiste, esistono solo gli individui.”

Sicuramente la modernità come epoca del “sempre nuovo” e la sua narrazione del progresso eterogeneo e settoriale in base al luogo di riferimento (centro, periferia, semiperiferia) e all’agenda setting dei gruppi in competizione, unita a fattori tipicamente europei come il mito della salvezza nella tradizione giudaico-cristiana del beruf, hanno enfatizzato l’identità individuale a discapito della dimensione sociale.

Tuttavia occorre ricordare anche lo sviluppo del suo contrappunto, l’idea di vita solidale. Un esempio è fornito da La vita comune: l’uomo è un essere sociale di Todorov e nella ricostruzione storica, contrapposta a quella religiosa, secondo la quale gli uomini hanno sempre vissuto in gruppi più o meno numerosi manifestando così la propria cooperazione.

A tal proposito Marx, parlando del feticismo delle merci, fece riferimento all’isolamento dell’individuo come un’apparenza vera, in quanto siamo effettivamente connessi agli altri ma senza averne contezza, in quanto il mercato spersonalizza la relazione.

Per tali ragioni, questo piccolo contributo prende le mosse dal libro Riconoscimento e Disprezzo di Axel Honneth e dalla sua analisi fenomenologica delle ferite morali, per tentare di allargare il quadro e riallacciarsi ad alcune questioni che ruotano intorno alla comprensione del senso degli altri e alla narrazione di sé in una prospettiva più relazionale. Dai racconti autobiografici (sui quali si basò anche Honneth per la sua trattazione) al disimpegnato piacere di mettersi in mostra. Dalla precomprensione inconscia e stereotipata e alla permeabilità dialogica di diversi orizzonti di senso. Fino a citare la galassia dei post-colonial studies, un’autocritica della modernità e la decentralizzazione delle sue rappresentazioni: la necessità, più che di essere amati, di essere riconosciuti fuori dalle categorie etnocentriche “indispensabili e inadeguate” per definirsi nella modernità.

Tutti questi esempi, in fondo, rimandano e rafforzano l’importanza che il riconoscimento ha nei nostri studi e quanto sia (poco) scontato il senso che gli altri hanno nella definizione della propria identità.

Questi spunti hanno rappresentato la parte più ricca e interessante del corso di “Teoria Sociale e Immaginazione Sociologica” di quest’anno e, in questa piccola relazione, si tenterà di tenerli insieme.

 

 

Cosa intendere per Riconoscimento?

 

Sarebbe difficile, forse anche irrispettoso, introdurre il testo di questa relazione senza prima fare, seppur approssimativamente, un accenno alle varie accezioni della parola riconoscimento che abbiamo avuto modo di studiare, e anche di narrare in prima persona, all’interno di questo corso.

Le differenze semantiche e culturali rappresentano l’arricchimento alla base di una società fondata su principi di partecipazione, solidarietà e convivenza.

Nelle scienze sociali, la mediazione offerta dalle lingue ha rappresentato uno dei fattori, insieme alla scienza, che hanno contribuito a mutare la definizione di “Teoria” (prima ancora che di Teoria Sociale) dall’antica Grecia ai giorni nostri. Dall’idea cioè di osservare qualcosa riconoscendone l’ordine[1], che garantiva una forma di conoscenza totalizzante e contemplativa, fino ad arrivare ad una concezione simile a quella di “modello”: una delle possibili rappresentazioni del mondo tra altre ugualmente legittime e, spesso, in competizione. Nel mezzo, la definizione più ampia e meno determinata di Schemi generali, ossia l’insieme di studi, le prospettive che fanno capo ad un certo approccio.

Paul Ricœur in Percorsi del Riconoscimento (2005) individuò, dallo studio di due dizionari francesi, il Littré ed il Grand Robert, circa 50 accezioni per il termine “riconoscimento”, che spaziavano dalla semplice identificazione di un oggetto, passando per i significati usati sia nella forma attiva che in quella passiva; fino ad arrivare all’uso che attribuisce al verbo “riconoscere” il significato di ringraziare e alla sua logica del mutuo e asimmetrico riconoscimento e all’esperienza degli stati di pace in contrasto alla metafora della lotta honnettiana.

Questa varietà semantica ci rimanda alla questione del linguaggio. Alla percezione delle similitudini e delle differenze che hanno le parole in lingue diverse e che contribuiscono a creare una pluralità di significati e interpretazioni. Basti pensare alla dicotomia inglese house/home a cui non corrisponde una soddisfacente traduzione italiana. Oppure al mare, sostantivo maschile che, citando Primo Levi in I sommersi e i salvati: “non fa mai doni se non duri colpi, e qualche volta un’occasione di sentirsi forti.” Ecco, se lo comparassimo alla lingua francese che invece utilizza il femminile mer, tutto sembrerebbe meno pauroso, forse persino più suadente. O al contrario, inseguendo il collegamento che è possibile riscontrare tra termini diversi che però rimandano allo stesso significato: Ghesellistadt e Adda (Jedlowski, 2012).

Per escludere un iniziale spaesamento, il prof, Jedlowski nella dispensa n.1 ci ha presentato diversi tipi di riconoscimento dal carattere progressivo, per paragonarlo ai cerchi concentrici cui faceva riferimento Axel Honneth.

In questo senso, escludendo il significato, basilare e iterativo, di “conoscere di nuovo” e rispondere così alla domanda “dove l’ho già visto?”, troviamo al primo posto la definizione Riconoscimento Esistenziale: ammettere cioè l’esistenza di qualcuno. Potremmo paragonarlo alla seconda delle sei funzioni che Jackobson, esponente della scuola di Palo Alto, definì fàtica: ossia il semplice stabilire e mantenere un contatto. Affermare “io sono qui” e riceverne conferma dall’altro. In questo senso, sono diverse le categorie di “invisibili”, vittime di riconoscimento mancato, che permangono nelle società contemporanee e che, per certi versi, la pandemia da covid-19 ha reso più evidenti. Ma, allargando lo sguardo, potremmo riallacciarci anche alla prima forma di misconoscimento honnettiana, che riguarda la durevole lesione della fiducia in se stessi, e alla rispettiva relazione di riconoscimento, il particolarismo morale insito nell’amore, da cui si aprono le altre forme di riconoscimento e una congiunta ricerca di senso da parte degli amanti.

Abbiamo poi il Riconoscimento Identificativo, relativo a quella che Crespi[2] definii identità collettiva e che risponde alla domanda: “che cosa sono io?”

Per riprendere Honneth, potremmo fare riferimento alla seconda sfera del riconoscimento, relativa al pari godimento di diritti. Viene in mente, in questo caso, il film The Terminal (2004) di R. Zemeckis in cui il protagonista, interpretato da Tom Hanks, complice il conflitto in atto nella sua nazione, la fantomatica Khrakozhia, si trova nella situazione di “perdere” la sua identità sociale e non poter più abbandonare l’aeroporto in cui era atterrato. Il film è ispirato alla storia vera di un rifugiato iraniano giunto a Parigi che si è trovato a vivere nel Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle fino al 2006. [3]

 

Abbiamo incontrato poi il riconoscimento Valutativo, che esprime considerazione o stima per qualcuno. Si potrebbe paragonare alla terza sfera tra quelle descritte da Honneth, in cui, come vedremo, la valutazione positiva di stili di vita diversi permette lo sviluppo della stima di sé.

E ancora il riconoscimento cognitivo, relativo allo sforzo di conoscere. La comprensione, come abbiamo visto, presenta più “gradi”: dalla pre-comprensione che diamo per scontata, basandoci su generalizzazioni e condividendo lo stesso mondo e gli stessi riferimenti culturali. Si passa poi per l’interlocuzione faccia a faccia, in cui lo sforzo è legato tuttavia ancora ai ruoli e alle finalità pratiche più che al singolo. Fino alla “permeabilità di diversi orizzonti di senso” data dal dialogo, che permea l’incontro degli orizzonti di senso, e dalla consapevolezza del rispettivo con-esserci che modella l’identità e la sua narrazione, per richiamare alla memoria Ricœur e Melucci, “relazionale”.

Per ultima, ma non meno importante, l’accezione di riconoscimento come un “meta-processo”, una narrazione autoriflessiva delle proprie esperienze (che consideriamo complete e di cui abbiamo contezza solo quando le rianalizziamo). Si tratta dunque di prendere atto a tutti gli effetti di ciò di cui, implicitamente, si era già a conoscenza.

Per tenere a mente il contributo su Walter Benjamin, si potrebbe citare il duplice processo di erlebnis ed erfarung. Se la prima consiste nell’esperienza accumulata biograficamente e concatenata in un lineare percorso di accumulazione; la seconda interviene e astrae tale continuità con il sostegno della coscienza, riadattando pragmaticamente le proprie esperienze in un meccanismo circolare di retroazione, alla maniera dei ricercatori di Palo Alto, e offrendo, a seconda dei casi, una diversa interpretazione del proprio vissuto.

 

Sul Riconoscimento come relazione etico-morale in Axel Honneth

Il punto di partenza per la riflessione honnettiana di “Riconoscimento e Disprezzo” è dato dallo studio di Ernst Bloch e del suo Il diritto negato e la dignità umana (1961).

In questo testo, l’autore segnalava i differenti obiettivi dell’utopia sociale e del giusnaturalismo. Se la prima punta alla felicità tramite il conseguimento della “vita buona” (eudaimonia) o quantomeno la soppressione dei bisogni di epicurea memoria, il giusnaturalismo invece è votato al garantire la dignità dei diritti dell’uomo.

Questa “dignità umana”, premette Honneth, è tuttavia raggiungibile solo indirettamente, attraverso l’esperienza delle diverse forme di disrispetto e umiliazione personale. Queste ultime, se da un lato minano la capacità degli individui di rapportarsi efficacemente con se stessi e con gli altri, dall’altro offrono maggiore consapevolezza nella salvaguardia dell’integrità morale e sociale degli individui, ottenuta grazie al riconoscimento intersoggettivo.

Nel testo, Honneth si pone a metà strada tra queste due le concezioni; ma guarda maggiormente all’etica, svalutata e stretta nell’atemporale e universalistico principio morale kantiano, criticando una concezione generica e riduttiva della giustizia, la quale dovrebbe invece essere dipendere “dalle visioni storicamente mutevoli di ciò che è la vita buona, ossia da atteggiamenti etici.” (Honneth, 1993)

In questo senso, è possibile avvertire anche un collegamento con ciò che affermerà Nick Coudry[4], in riferimento ai media, sull’importanza di una virtù della cura e il ritorno all’aristotelica saggezza pratica o phronesis.

Axel Honneth ha avuto il merito, tra gli altri, di aver invitato ad un mutamento nella definizione dei conflitti. La sua riflessione ha fatto sì che i conflitti sociali potessero essere interpretati, da “divisibili” ossia riguardanti beni materiali, come conflitti “indivisibili”, basati dunque sull’identità. Avviene quindi un passaggio: dall’idea di redistribuzione a quella del riconoscimento. Se nel primo caso la visione della giustizia sociale si limita alla suddivisione dei beni economici che garantiscono la libertà; con il secondo si afferma che una società è giusta attraverso il riconoscimento della dignità e dell’integrità sociale degli individui.

Honneth sostiene che tale interesse nasce da una ben più profonda, e ritrovata, sensibilità morale tale da assumere anche preminenza politica. Il recente insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden e della sua squadra di governo[5] sono esemplificativi in tal senso e mostrano la particolare attenzione data ai movimenti socio-culturali (come quello gender-free) a dimostrazione del fatto che “il riconoscimento della dignità di individui e gruppi è un elemento essenziale del nostro concetto di giustizia.” (Honneth, 2010).

Le pretese al riconoscimento sono mediate da una lotta morale, un conflitto intersoggettivo il cui esito è il riconoscimento di aspetti della personalità finora taciuti o privi di conferma sociale.

Ampliando dunque l’iniziale spunto di Bloch, Honneth userà una “analisi fenomenologica delle ferite morali” per risalire, in modo inverso, dalle tre forme negative di spregio o misconoscimento a quelle positive del riconoscimento, che offrano così una chiave atta ad illustrare la correlazione tra morale e riconoscimento.

Infatti, spiega lo stesso autore, è immediato constatare come “l’integrità della persona dipenda in maniera fondamentale dall’approvazione o dal riconoscimento di altri soggetti.” (Honneth, 1993)

Questo ci rimanda ad una serie di considerazioni, primo fra tutti il tema del senso degli altri e il ruolo che hanno nella narrazione autobiografica. Non a tutti diciamo le stesse cose e non allo stesso modo. I racconti e le rappresentazioni di noi stessi che offriamo agli altri non sono che un gioco di specchi o per richiamare Goffman (1959) un palcoscenico, in cui la nostra identità sociale viene continuamente rimodellata in base alla persona che ci troviamo davanti o al ruolo che interpretiamo in un gruppo sociale che da noi si aspetta, approvandole, alcune caratteristiche piuttosto che altre. Ciò è alla base di quella che Alberto Melucci definii identità narrativa[6] la quale non può che essere costruita socialmente sulla base delle identificazioni che gli altri rinviano o alla tensione persistente nel rapporto ipse-idem di Ricœur, tra imprevedibilità e continuità. Ma anche a ciò che concerne la formazione del sé nella psicologia sociale di Mead.

I tre tipi di riconoscimento intersoggettivo che ne conseguono corrispondono all’amore, al diritto e alla solidarietà e raccolgono i sentimenti, o modi positivi di rapportarsi, della fiducia in sé, del rispetto di sé, e dell’autostima. In presenza di tali condizioni, gli esseri umani possono godere integralmente della loro “dignità morale.”

 

La prima forma di misconoscimento, con cui si indica un comportamento negativo che colpisce gli individui nella comprensione positiva di se stessi acquisita intersoggettivamente, è caratterizzata dal maltrattamento di una persona: sono le umiliazioni fisiche quali tortura e stupro. Ogni tentativo di imporre il proprio controllo sul corpo di un’altra persona contro la sua volontà, provoca una degradazione nella fiducia in se stessi, costruita attraverso l’amore, che priva il soggetto del rapporto autonomo col proprio corpo.

Il rapporto di riconoscimento corrispondente a questo tipo di disrispetto è la “dedizione emotiva” (Honneth 2010) che rappresenta la costruzione di un rapporto di fiducia col proprio corpo. Hegel ne parlò in precedenza facendo riferimento al concetto di Amore, la cui forza è dirompente non soltanto per un’etica del riconoscimento, ma anche relativamente al senso che gli altri ci danno: “Quando si ama si desidera sacrificarsi, si desidera servire” scrisse Hemingway in Addio alle Armi, oppure “Se tu non mi ami non importa, posso amare per tutti e due” in Per chi suona la campana. Potremmo usare queste citazioni anche per legarci alla riconoscenza mutua e asimmetrica che proponeva Paul Ricœur (2005).

Per relazioni d’amore vanno intese tutte le relazioni primarie: a partire dal rapporto genitore-figlio fino a quella erotica, passando per l’amicizia, nella misura in cui consistono in un vincolo affettivo speciale, un particolarismo morale, tra persone che rende quindi impossibile traslare tale affetto ad una moltitudine indefinita di esseri umani.

I soggetti si confermano reciprocamente nella loro natura di esseri bisognosi, manifestando la necessità della tenerezza. In questa esperienza i soggetti si sentono uniti dal fatto di dipendere l’uno dall’altro per le proprie necessità. Il riconoscimento assume quindi la forma della dedizione affettiva e dell’incoraggiamento, In un equilibrio di costante tensione tra autonomia e legame, tra rinuncia simbiotica e autoaffermazione, come afferma anche Mead, in cui la comprensione si costruisce insieme. L’atteggiamento positivo che quindi il singolo può adottare è quello della fiducia in se stesso.

 

Sempre utilizzando il principio del disrispetto come leva per il riconoscimento, la seconda forma di degradazione colpisce la “comprensione normativa di sé” (Honneth, 1993) e dunque il rispetto morale. In questo caso, l’essere umano viene degradato della capacità di intendere e di volere da parte della sua comunità ed escluso dal possesso di determinati diritti. Per diritti si intendono le “pretese individuali sul cui adempimento sociale una persona può contare legittimamente, poiché, come membro a piano titolo di una comunità, partecipa con uguali diritti al suo ordinamento istituzionale.” (Honneth, 2002) Questa forma di misconoscimento si esprime quindi attraverso la privazione dei diritti e l’emarginazione sociale, a cui si accompagna la perdita del rispetto di sé in quanto il soggetto non viene reputato membro a pieno titolo della comunità.

La forma di riconoscimento corrispondente è rappresentata dal rispetto del se elementare, nel quale l’individuo si riconosce, e viene riconosciuto, come detentore di diritti al pari degli altri. Inoltre il rapporto giuridico permette, a differenza della prima forma del riconoscimento, un allargamento meno particolaristico del riconoscimento intersoggettivo.

Questo passaggio è stato identificato da Mead con la definizione di “altro generalizzato”, che indica il rapporto nel quale Alter ed Ego si rispettano come soggetti giuridici, poiché entrambi possiedono una comune conoscenza delle norme sociali. Questa definizione non contiene indicazioni sul tipo di diritti (implica il solo fatto di possederli) né sulla modalità con cui vengono prodotti. Hegel invece fa dipendere questo riconoscimento da premesse morali universali: i soggetti, ubbidendo alla stessa legge, si riconoscono come individui autonomi e razionali capaci di decidere sulle norme morali, nei quali viene garantita all’individuo la soddisfazione di diritti e l’imposizione di particolari doveri. Dunque il rapporto giuridico, a differenza di quello sentimentale, contiene un universalismo di principio.

Ciò significa, da un lato, esso permette una generalizzazione del riconoscimento di diritti materiali, cioè la garanzia di poterli effettivamente realizzare, e dall’altro l’avanzare dei diritti sociali, in cui la sfera del riconoscimento si amplia gruppi precedentemente esclusi.

 

Arriviamo quindi al terzo tipo di umiliazione, che consiste nella svalorizzazione sociale di alcune forme di autorealizzazione. I soggetti in questo senso non possono riferirsi alle qualità positive acquisite nelle loro biografie e riceverne stima sociale. La stima in questo senso non consiste nella semplice applicazione di norme universali; ma nella valutazione di capacità concrete. La realizzazione di fini condivisi, seppure in modi diversi. Nel primo caso si fa riferimento a qualità morali generali e che non presentano gradazioni, agendo per uguaglianza. Nel secondo ci si riferisce alle qualità concrete che si caratterizzano per differenza, ma che non per questo non possono vedersi realizzate.

Nel momento in cui queste caratteristiche pratiche vengono ordinate gerarchicamente, tacciando di inferiorità o escludendo singoli modi di vivere, tale azione toglie ai soggetti interessati la possibilità di attribuire alle proprie capacità un valore sociale. Questa svalutazione o vergogna sociale comporta la perdita di autostima, ossia la capacità di riferirsi a se stesso come soggetto stimato per le proprie qualità e caratteristiche.

A questo corrisponde la stima sociale, che aiuta i singoli a sviluppare l’autostima in un rapporto di approvazione solidale, condividendo oneri e responsabilità. Per giungere ad una relazione riuscita con se stesso il soggetto necessita del riconoscimento intersoggettivo delle proprie prestazioni. Questo tipo di riconoscimento può essere compreso solo assumendo l’esistenza di un orizzonte di valori condivisi.

L’aspirazione di Honneth, con cui si chiude il libro, è un ponte che porta proprio a questo: realizzare una sorta di approvazione solidale simmetrica tra cittadini. I quali devono riuscire a convivere con una tensione insuperabile: la necessità di valori sostanziali e di fini condivisi e il rischio, generalizzandoli, di non richiuderli in una particolare forma di vita.

Honneth si propone a questo punto di ampliare il concetto di morale dalla tradizione kantiana da “quel punto di vista che permette di portare eguale rispetto a tutti i soggetti.” (Honneth, 1993) e parlare di buona vita ed etica, con la quale si intende “un particolare mondo della vita riguardo al quale è possibile formulare giudizi soltanto nella misura maggiore o minore in cui esso si avvicina a quanto richiesto dal principio morale universale.” (Honneth, 1993)

Il riconoscimento come “lotta” e la conseguente etica-post tradizionalista che si propone di affrontare, si distanzia da entrambe le tradizioni. Sulla morale kantiana critica il fatto di restare generica e di non garantire un’effettiva realizzazione che tenga conto delle differenze. Tuttavia considera fondamentale l’interesse per le norme generali. Riguardo l’etica comunitarista condivide l’attenzione per l’autorealizzazione individuale ma ne contrasta gli orientamenti di valore che rappresentano spesso l’ethos di una e una sola comunità concreta.

Le progressive sfere del riconoscimento honnettiane si pongono a metà strada tra egualitarismo e individualismo: da un lato assunti abbastanza formali da poter rappresentare condizioni universali, dall’altro pratiche o stili di vita le cui strutture possono variare e dispiegarsi in modo diverso a seconda del periodo storico, mantenendo il loro senso di fondo.

A questo punto Honneth definisce l’etica come “l’insieme delle condizioni intersoggettive rispetto a cui è possibile dimostrare che fungono da presupposti necessari all’autorealizzazione.” (Honneth, 1993)

La base per interpretare questa definizione di etica sta proprio nelle tre forme di riconoscimento reciproco, le quali non sono atemporali, come l’idea prevalente di morale che si propongono di contrastare, ma si rifanno ad un’etica che si sviluppa al mutare delle epoche.

Basti pensare all’eguale legittimità dei vari tipi d’amore che si possono provare e la cui letteratura si è sviluppata nel corso della storia. A come l’ampliamento delle norme giuridiche a minoranze prima escluse sia legato al mutamento storico che funge da vettore. A quanto, nel giro anche di pochi anni, le questioni legate alla stima sociale (il tema dell’aborto, della fecondazione assistita, dell’eutanasia, dell’accettazione del proprio corpo) siano diventati centrali nelle campagne di sensibilizzazione, anche e soprattutto grazie ai nuovi media.

Gli autori di cui si serve Honneth, ossia Mead e Hegel, concordano nell’affermare che le vittorie universalistiche dell’egualitarismo e dell’individualismo sono impresse nei modelli di interazione, sebbene facciano riferimento più che altro soltanto al primo stadio del riconoscimento, l’amore.

Con questi tre modelli di riconoscimento ossia dell’amore, del diritto e della solidarietà gli individui possono assicurarsi dignità o integrità. “Qui “integrità” significa soltanto che un soggetto sa di poter trovare sostegno nella società nel quadro delle sue relazioni pratiche con se stesso” (Honneth, 2010). Gli individui infatti, grazie alla fiducia in sé, il rispetto in sé e la solidarietà possono riferirsi a sé stessi, e agli altri, positivamente nei termini dell’autorealizzazione. Questa non soltanto avviene in maniera autonoma, senza spinte e obblighi esterni, ma anche sperimentale, privi di blocchi mentali interni all’individuo. Si manifesta in questo senso un tipo di fiducia interiore che rientra nel concetto di giustizia sociale ma conduce ad una concezione formale di vita buona.

 

 

Sul senso degli altri

 

Come abbiamo avuto modo di osservare a più riprese, sono diversi i collegamenti che si possono fare a partire dalle forme del Riconoscimento per come le ha formulate Axel Honneth. Il primo che torna alla mente è di certo il senso degli altri e il tema della comprensione. Un argomento questo molto caro alla Sociologia fin dalle sue origini e dalla sociologia comprendente weberiana, che interpreti il significato dell’agire sociale dotato di senso soggettivo. “Non esistono fatti, solo interpretazioni” per richiamare la sociologia fenomenologica di Alfred Schutz.

Certo, si potrebbero muovere delle critiche all’autore e esplicitare delle mancanze, come l’assenza del riferimento al riconoscimento negativo, che pure esiste (a differenza di quello mancato) e comporta l’identificazione di qualcuno o qualcosa, per quanto con toni umilianti. Ma anche di quello asimmetrico, il cui giudizio di valore è meno scontato di quanto si pensi e può rappresentare non soltanto una lotta degli inferiori ma anche una risorsa e/o una forma di prestigio sociale. Questo contributo è probabilmente troppo scarno per offrire al lettore una seria dissertazione in merito. Certamente su quest’argomento è difficile non citare i Post Colonial Studies e l’attenzione riportata alla rappresentazione dell’altro e il tentativo di divincolarsi dall’etnocentrismo, a partire dall’interpretazione del dipinto “La nave negriera” di W. Turner. Ma possiamo ritrovarlo anche nel recente appello del Papa[7]: “C’è il rischio di raccontare la pandemia, e così ogni crisi, solo con gli occhi del mondo più ricco, di tenere una doppia contabilità.”

“L’ignoranza asimmetrica” di cui scrive Chakrabarty[8], in cui i popoli extraeuropei conoscono bene i principali autori occidentali e la storia della cultura europea, ma non vi è reciprocità di sguardi nei confronti di autori e storie degli altri luoghi del mondo. Per narrare in questo senso un episodio personale, alle domande su Lawrence d’Arabia e i 7 sette pilastri della saggezza, Audh, la nostra guida beduina ci rispose informandoci sulle storie e i personaggi meno conosciuti di quelle vicende, aiutandoci a riconoscere la dignità di un popolo, quello giordano, che “ha i suoi eroi e non ha bisogno di eroi di altri paesi.”

È importante chiarire a questo punto che l’orizzonte di senso rappresenti un effettivo quanto inesprimibile repertorio di conoscenze, valori, stili di vita, aspirazioni, preoccupazioni, musica; tutto ciò resta sullo sfondo delle nostre azioni e non riusciamo pienamente ad afferrare, eppure orienta il nostro cammino restando sullo sfondo delle nostre esperienze e si muove, mutando, insieme a noi.

Ecco, la narrazione, anche quella autobiografica, non sempre è coerente e non mostra necessariamente dei fatti; ma, soprattutto, rivela le caratteristiche di un individuo. Per sapere chi siamo, dobbiamo raccontarci. E per farlo, dipendiamo da un interlocutore. Che sia interno o esterno, reale o virtuale, determinato o indefinito. Tale narrazione può essere smentita se l’io narrante e l’io del testo non corrispondono nell’interpretazione dell’interlocutore. E si rischia quindi di perdere la faccia. Tuttavia può mostrare molto di ciò che riconosciamo e disconosciamo, e questo raccontare avvenimenti, luoghi, relazioni, ma anche ciò che accade nel frattempo e il modo in cui la si interpreta, dice qualcosa dell’orizzonte di senso, del campo d’azione si chiede di guardare e comprendere, in un riconoscimento non soltanto esistenziale, ma anche cognitivo e valutativo. Fino ad arrivare al meta-riconoscimento. Alla presa d’atto. Non soltanto da parte di chi ascolta, che meglio comprende se appartiene alla stessa generazione, per richiamare Mannheim, o condivide gli stessi riferimenti di senso, più che materiali, culturali.

Ma anche, e soprattutto, per chi narra e riflette retroattivamente sulla sua esperienza, la sua memoria e ciò che vi è intorno.

Nell’identità personale troviamo un altro che abita noi stessi. A volte anche più di uno. L’attestazione di sé, sostiene Ricœur (2005), consiste nel potersi riconoscere come personaggio del racconto: l’identità narrativa di ciascuno consiste nel desiderio di “partecipare all’essere” si costruisce nel perenne dialogo con l’alterità. Da qui si arriva anche alla comprensione come dialogo tra pari e alla permeabilità degli orizzonti di senso. Ci si guarda dentro, col rischio di “restare ciechi” per citare l’opera di Paul Watzlawick[9] e si può decidere soltanto in parte come mostrarsi agli altri. Certo, si può omettere un avvenimento, adattare il proprio racconto all’interlocutore che abbiamo davanti. Ma per la comunicazione non verbale questo non ha effetto. Uno sguardo, una lacrima, un brivido, la postura del corpo, il modo in cui si tengono le mani. Il corpo può tradirci indipendentemente dalla nostra volontà.

Il riconoscimento di sé comporta una dipendenza reciproca dall’altro. Una co-esistenza fondamentale. La vera umanità accoglie l’alterità e il suo mistero, come la carezza lacaniana che “non sa cosa cerca”, e ci chiede di andare avanti, trovare il senso della nostra vita negli altri, diventando ermeneuticamente attivi.[10]

Vorrei chiudere questa piccola relazione con dei versi che ho scritto, e che non mi hanno più abbandonato:

 

Riconoscersi è abitarsi,

donare se stessi in una parola:

eccomi; sono l’alba che non leva

e resta ancora a vegliare le stelle

dalla luce del giorno.

 

 

Bibliografia

 

 

-Honneth A., Riconoscimento e disprezzo, Rubettino, Catanzaro, 1993.

-Honneth A., Lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, Milano, 2002.

-Honneth A., Capitalismo e riconoscimento, Firenze University Press, Firenze, 2010.

– Jedlowski P., Il mondo in questione, Carocci, Roma, 2008.

– Jedlowski, P., In un passaggio d’epoca. Esercizi di teoria sociale, Napoli, Orthotes, 2012 + dispense integrative.

-Ricœur P., Percorsi del Riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.

 

[1] θεωρέω theoréo “guardo, osservo”, composto da θέα thèa, “spettacolo” e ὁράω, “vedo”

[2] Crespi F., Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Bari. 2004.

[3] https://www.cinematographe.it/rubriche-cinema/focus/the-terminal-storia-vera-film/

[4] Couldry, N., Sociologia dei nuovi media. Teoria sociale e pratiche mediali digitali, Pearson, 2015

[5] https://www.fanpage.it/esteri/rachel-levine-prima-sottosegretaria-alla-salute-transgender-degli-usa-scelta-storica-di-biden/

[6] A. Melucci, Il gioco dell’io, Milano, Feltrinelli, 1991,

[7] https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/giornata-mondiale-delle-comunicazioni-sociali-messaggio-Papa-Francesco-fake-news-8a8cef68-4451-42ca-b4a9-083e5a80e998.html

[8] Dispensa “Riconoscimento e Narrazione” pag 7.

[9] Watzlawick P., Guardarsi dentro rende ciechi., Ponte delle Grazie, 2007

[10] Dispensa “Il senso degli altri” pag 7

Questo sito web utilizza Google Analytics. Fai clic qui se vuoi disattivarlo. Fai clic qui per disattivarlo.